benedettosedicesimo

4.23.2005

Lo sguardo del cardinale Ratzinger sulla socialdemocrazia europea

di Stefano Ceccanti

Parlando al Senato della Repubblica il 13 maggio 2004 con una lectio magistralis sul tema “Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani” l’allora cardinale Ratzinger si sofferma diffusamente del socialismo, segnalando anzitutto che esso “si suddivise presto in due diverse vie, quella totalitaria e quella democratica”.
Ratzinger si dedica quindi a definire l’itinerario dell’una e dell’altra. Della seconda, di cui mostra di avere piena conoscenza in tutte le sue sfumature europee e “contaminazioni” culturali, segnala che si affermò “come un salutare contrappeso nei confronti delle posizioni liberali radicali…le ha arricchite e corrette” e che in molti Paesi è stato in grado di coinvolgere credenti “al di là delle confessioni”, a cominciare dal socialismo religioso inglese dove il Labour “era il partito dei cattolici, che non potevano sentirsi a casa loro né nel campo protestante-conservatore, né in quello liberale”. La stessa esperienza del Zentrum cattolico nella Repubblica di Weimar è letta come quella di un partito “più vicino al socialismo democratico che alle forze conservatrici prussiane e protestanti”.

In conclusione, rispetto a tale filone, si dice che “in molte cose il socialismo democratico era ed è (il corsivo è mio) vicino alla dottrina sociale cattolica, in ogni caso esso ha considerevolmente contribuito alla formazione di una coscienza sociale”.

L’uso del verbo presente senza ulteriori cautele indica con evidenza che, ferme restando le indubbie differenze di valutazione che esistono sul tema delle libertà civili (di cui Ratzinger parla nelle ulteriori parti del discorso), e il grande peso che esse hanno nel pensiero di Ratzinger, com’era evidente nell’omelia del giorno di inizio del Conclave, esse non annullano quella valutazione complessivamente positiva.

Sono quindi da attendersi occasioni di critica, senza reticenze, in cui ciascuno esporrà le ragioni su cui si basa, anche a partire dai diversi ruoli e funzioni, ma esse da parte del nuovo pontefice non saranno mai il frutto di logiche politiche provinciali o di prevenzioni ideologiche, in questo in evidente continuità col pontificato precedente. Nessun concordismo, quindi, né sottovalutazione delle difficoltà; ma sarebbe sbagliato avviarsi ad affrontarle con prevenzione e sottovalutazione delle conoscenze dell’interlocutore.

Del modello totalitario di socialismo viene invece segnalato il carattere di “religione secolare”, la connessione stringente “con una filosofia della storia rigidamente materialistica ed ateistica”, in cui i valori non sono più “indipendenti dagli scopi del progresso”, con la conseguenza pratica di un “dogmatismo economico” in cui la morale è subordinata “alle esigenze del sistema e alle sue promesse di futuro”, da cui i problemi di ricostruzione morale più che economica nella parte centrale e orientale dell’Europa.

Nessuna confusione, quindi, né indebita assimilazione, tra crisi del socialismo totalitario e difficoltà della socialdemocrazia a ridefinire se stessa.

L’ottima conoscenza delle esperienze europee è certo filtrata dal dialogo ravvicinato tra Chiesa cattolica e Spd dopo la svolta di Bad Godesberg del 1959. Non casualmente essa fu realizzata un anno dopo che a Monaco si era svolta, sotto l’organizzazione dell’Accademia culturale della diocesi, un colloquio sui rapporti tra cristianesimo e socialismo con la partecipazione di autorevoli leader del partito e di mons. Karl Forster, in seguito divenuto segretario della Conferenza episcopale. In parallelo alla deideologizzazione della Spd la Conferenza episcopale si svincolò da un appoggio preferenziale verso la Cdu-Csu, con un più chiaro profilo di autonomia, indipendenza e aperta interlocuzione con tutte le forze politiche.

Il nome di Benedetto radice di fede, cultura e civiltà

di Andrea Riccardi

La scelta del nome di Benedetto da parte del nuovo Papa può avere sorpreso molti. D'altra parte tanti giovani non hanno conosciuto un Papa diverso da quello che portava il nome di Giovanni Paolo II. Un nuovo Papa è sempre una sorpresa. Ma la catena dei Papi continua. L'intreccio dei loro nomi richiama, allo stesso tempo, la continuità del ministero e la diversità delle persone che si succedono sulla cattedra di Pietro. Il mutamento del nome, tipico della vita monastica e di quella religiosa, è divenuto una tradizione per i Papi da moltissimi secoli. Ha un significato profondo: il distacco dalla propria storia ma anche il radicamento nel nuovo ministero. Sullo sfondo di questa tradizione c'è il mutamento del nome di Simone da parte di Gesù. Del resto il nome (anche nella tradizione biblica) è qualcosa di decisivo. Ma bisogna pensare che, per tanti secoli, quando non c'erano i media, l'unica cosa che il popolo cristiano nel mondo (con l'eccezione dei romani) conosceva a proposito del Papa era il suo nome e qualche scritto per i più dotti. Allora il nome diceva quasi tutto del nuovo Papa. Oggi è molto differente.
Eppure il nome resta importante, anche perché è scelto e non ricevuto. Un nome è qualcosa di diverso e di più di un programma. D'altronde non si può parlare del programma del Papa come di quello di un leader politico. Giovanni Paolo II, di fronte a coloro che si interrogavano sul suo programma agli inizi del pontificato, disse semplicemente: "La linea del Papa: questa linea è la fede". Il nome del Papa esprime, più che il programma, proprio la radice storica e personale che egli vuole evocare.
Per il nuovo Papa la memoria va immediatamente al suo più recente predecessore, Giacomo della Chiesa, che assunse il nome di Benedetto XV. Papa dal 1914 al 1922, conobbe il dramma della guerra con la frantumazione dell'Europa e la nazionalizzazione degli stessi cattolici. Nel cuore della Prima Guerra Mondiale, la Santa Sede di Benedetto XV rappresentò un prezioso riferimento tra gli odi e i nazionalismi, anzi l'unica istituzione europea non travolta dalle passioni nazionali. Il Papa, che parlò della guerra come di un'"inutile strage", fu oggetto di una vera campagna di denigrazione da parte dei paesi in guerra.
Per Papa della Chiesa la prima guerra mondiale fu "il suicidio dell'Europa civile", di questo "giardino del mondo", come scriveva nei suoi accorati appelli. Benedetto XV è il Papa della pace e della riconciliazione. È quel Papa che, nel 1920, dopo la conclusione della guerra, scrive la prima enciclica sulla pace, Pacem Dei munus. Si tratta di un testo impressionante in cui Benedetto XV denuncia la fragilità di una pace che non si fondi sulla riconciliazione: "Se quasi dovunque la guerra in qualche modo ebbe fine, e furono firmati alcuni patti di pace, restano tuttavia i germi di antichi rancori". Nessuna pace ha valore - aggiunge - "se insieme non si sopiscano gli odi e le inimicizie per mezzo di una riconciliazione basata sulla carità vicendevole". Per realizzare la riconciliazione c'è bisogno della fede: "A risanar le ferite del genere umano è necessario che vi appresti la sua mano Gesù Cristo, di cui il samaritano era la figura e l'immagine" - dichiara questo Papa, che era per formazione un grande diplomatico.
Benedetto XV è stato una figura fragile, ma anche un forte e tenace lavoratore, infaticabile ricercatore di soluzioni pacifiche nel mondo e uomo di governo tra i tanti problemi della Chiesa uscita dalla crisi ottocentesca. Questo Papa - spesso lo si dimentica - è anche all'origine della rifondazione novecentesca delle missioni. L'Enciclica Maximum illud del 1919 rappresenta la Magna Charta di un nuovo impulso alle missioni, con un preciso orientamento al distacco dagli interessi politici delle potenze e di concentrazione sulla comunicazione del Vangelo. A questi propositi si collega, ad esempio, il tentativo di aprire una nunziatura a Pechino al di là della politica delle potenze europee, che rappresentava un forte impedimento all'evangelizzazione. Il Papa riesce a stabilire una delegazione in Cina, che è all'inizio del rinnovamento del cattolicesimo di quel paese. Nella stessa linea è il grande e rispettoso impegno di Benedetto XV per l'Oriente cattolico, che lo porta a fondare nel 1917 la congregazione per le Chiese orientali. Il suo pontificato conosce nell'impero ottomano la tragedia dei massacri dei cristiani, che Papa della Chiesa difende in tutti i modi: con la parola, con l'azione caritatevole e con quella diplomatica.
La visione missionaria di Benedetto XV si esplica in un grande rispetto per i popoli a cui la Chiesa si rivolge. Per lui il missionario non è portatore di interessi di parte, ma del Vangelo: "È necessario che chi predica il Vangelo sia uomo di Dio..." - afferma il Papa -. La Maximum illud si conclude con la prospettiva della rinascita di una sta-
gione missionaria: "E qui, sembrandoci che il divino Maestro esorti noi pure, come un dì Pietro con quelle parole: "prendi il largo", quanto ardore di paterna carità ci spinge a voler condurre tutta intera l'umanità all'abbraccio di Lui!". Significativamente il pontificato di Giacomo della Chiesa è segnato dall'intreccio dell'opera per la pace e la riconciliazione con il rilancio delle missioni.
Benedetto XV è l'unico Papa contemporaneo a portare questo nome prima di Joseph Ratzinger. Tuttavia il nome di Benedetto non può non richiamare, prima di tutto, il grande regolatore del monachesimo occidentale, personaggio dai contorni storici sfumati, ma grande riferimento per il monachesimo, la storia della Chiesa e della civiltà europea. In tempi di forte crisi (quello delle invasioni barbariche di cui parla anche Gregorio Magno, biografo di Benedetto), i figli e le figlie di questo santo hanno costituito comunità cristiane che prendevano sul serio il Vangelo nella sua radicalità e che avevano il loro cuore nella liturgia. Il movimento benedettino ha realizzato un universo di comunità cristiane che erano se stesse e che, per questo, sono divenute isole di umanità in un mondo difficile, che lo hanno umanizzato, e che hanno creato una comunione profonda, a partire dalla fede, tra i differenti popoli europei.
Il nome di Benedetto, nella storia europea e in quella della Chiesa, mostra la profondità della traccia impressa nella storia da un vissuto cristiano autentico che non è senza conseguenze per la società, anzi è creatore di cultura e civiltà. Il santo di Norcia, "consapevolmente ignaro e sapientemente incolto" secondo Gregorio Magno, rappresenta il riferimento per il processo di elaborazione della Regula Benedicti, quel testo normativo, intessuto di Sacra Scrittura, di esperienza e sapienza monastica, che ha formato autentiche comunità di monaci lungo i secoli. Sono quella "fortissima specie dei cenobiti" - come dice la Regula nel primo capo - che, essendo cristiani e monaci, ha costituito una nervatura decisiva per l'Europa. Sono questi "forti" credenti che nascono da una comunità, piccola o grande, ma che ha la sua fonte nella liturgia: così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli - ha recentemente detto il Cardinale Ratzinger -.
Il nome di Benedetto richiama anche quella sintonia, antica e levigata dalla storia, tra il mondo del Vangelo e quello della romanità, non solo perché dieci dei quindici papi con questo nome furono romani. Gregorio Magno, i Papi che hanno visto la decadenza di Roma antica, hanno però vissuto una rinascita di un mondo attraverso l'allargarsi della comunione dei cristiani in Europa, a cui ha dato un contributo decisivo il monachesimo benedettino. Quella sintesi tra cristianesimo e romanità (che non è confusione) rappresenta un riferimento nella storia d'Europa che si unifica. E non è un'unità astratta attorno a un'ideologia, ma concreta attorno a precisi punti di riferimento, tra cui spicca Roma, il suo Vescovo, la sua fede e la sua tradizione. Non un potere imperiale, ma la sorgente di una comunione.
Oggi, dopo il crollo dell'impero sovietico e del suo internazionalismo, di fronte alla lacunosa costruzione europea, si pone nuovamente il problema dell'unità dell'Europa. Roma ha qualcosa da dire all'Europa. Roma ha qualcosa da dire nei rapporti tra Nord e Sud del mondo. Il Card. Ratzinger è stato molto sensibile all'idea di Roma connessa al ministero del successore di Pietro. Egli ha scritto: "Non nella separazione e nella contrapposizione, ma solo nella communio si realizza l'identità di ciascuno. A questo genere di unità cerca di rendere servizio un cristiano, che non romano, come io sono, in Roma lavora e si sente anche in profonda consonanza con ciò che ha significato per tutti i popoli quella cittadinanza romana...". Ed oggi Joseph Ratzinger non è solo partecipe culturalmente e idealmente di questa cittadinanza, ma è Vescovo di Roma con il nome di Papa Benedetto XVI.

Così il cardinale Martini elogia Ratzinger teologo, professore e prefetto.

“La passione per la verità, che Joseph Ratzinger ha testimoniato coerentemente in tutti questi anni, va intesa come risposta al ‘debolismo’ della postmodernità”. Potrà sembrare strano ma questo giudizio lusinghiero del porporato che l’altro ieri è stato eletto Papa e ha scelto il nome di Benedetto XVI appartiene al cardinale Carlo Maria Martini, l’arcivescovo emerito di Milano che le cronache dei giorni scorsi avevano dipinto come il contraltare scelto dalla componente liberal del Sacro Collegio per impedire l’accesso del già prefetto dell’ex sant’Uffizio al soglio di Pietro. Le parole di Martini si trovano in una breve testimonianza su Ratzinger titolata significativamente “Un servitore della fede e della tradizione”, e scritta per il volume “Alla scuola della verità”, una miscellanea pubblicata dalla San Paolo nel 1997 per i 70 anni del porporato tedesco. La miscellanea in questione venne solennemente presentata il 22 dicembre di quell’anno nella Basilica di Santa Maria in Trastevere con una manifestazione curata dalla Comunità di sant’Egidio e dall’allora segretario particolare del cardinale Ratzinger, monsignor Josef Clemens, oggi vescovo e segretario del pontificio Consiglio per i laici. Tra gli oratori chiamati a presentare il volume ci furono il professor Andrea Riccardi, fondatore della Comunità, e il presidente emerito Francesco Cossiga. Particolarmente interessante la relazione di Riccardi tutta centrata sulla “romanità” del cardinale Ratzinger.
La miscellanea “Alla scuola della verità” conserva il suo interesse perché presenta contributi firmati da numerose personalità laiche ed ecclesiastiche scritti in tempi in cui era difficile immaginare che il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sarebbe diventato un giorno papa Benedetto XVI. Nonostante il titolo del contributo di Riccardi (Il progetto di un futuro Papa), a posteriori suggestivo, ma che in realtà sembrava limitarsi a descrivere l’atteggiamento degli ultimi pontefici nei confronti dell’Europa.
Particolarmente interessanti risultano i contributi di numerosi e titolati ecclesiastici come quello dell’allora rettore della Lateranense e oggi cardinale patriarca di Venezia Angelo Scola, o quello del cardinale di Colonia Joachim Meisner, o quello del cardinale di Parigi – oggi emerito – Jean-Marie Lustiger, o quello del cardinale di Monaco Friedrich Wetter. Senza contare poi le testimonianze del fratello Georg Ratzinger e del rabbino statunitense Jacob Neusner, uno dei numerosi esponenti dell’ebraismo con cui il neo Papa intrattiene rapporti di stima e di amicizia.

Una conoscenza che risale agli anni 60
Indubbiamente però, anche alla luce delle voci che hanno accompagnato il Conclave appena concluso, il testo della miscellanea che acquista un particolare interesse è quello del cardinale Martini. In esso il biblista che ha guidato l’arcidiocesi di Milano dal 1980 al 2002 traccia sinteticamente ed efficacemente la storia dei suoi contatti con il cardinale Ratzinger. Contatti che risalgono alla fine degli anni Sessanta quando Martini comincia a leggere l’“Introduzione al Cristianesimo” del teologo Ratzinger e poi partecipa a una lezione sull’Eucaristia tenuta a Münster dal professor Ratzinger. La conoscenza personale tra i due big della Chiesa universale, sempre secondo il racconto che ne fa Martini, risale però al 1980, durante il Sinodo sulla famiglia, per poi diventare più frequente quando Ratzinger nel 1982 arriva a Roma per guidare l’ex Sant’Uffizio. E in questo contesto arrivano i complimenti. “Egli – scrive Martini riferendosi a Ratzinger – ha sperimentato nelle università tedesche degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta, le conseguenze di atteggiamenti troppo disinvolti e facili, in particolare degli studenti, verso le ricchezze della tradizione”. Martini poi non nasconde il fatto che Ratzinger possa aver affrontato “casi dolorosi”, che, “col senno di poi”, si sarebbero potuti trattare “in altro modo”. “Ma – conclude – il senno di poi è dato ai posteri, mentre ai contemporanei si richiede di agire ciascuno nel massimo della buona coscienza e della competenza. In queste cose Joseph Ratzinger ci è di modello e di stimolo”.

4.22.2005

"Ha gli occhi buoni". E tutti lo studiano

di Gian Maria Vian

Benedetto XVI sarà un grande papa. Non sappiamo come, anche se da molte ore ascoltiamo e leggiamo milioni di parole – non tutte convincenti o fondate – sul romano pontefice che i cardinali hanno eletto dopo un solo giorno di conclave. Non lo sappiamo perché ogni uomo salito sulla cattedra romana, una volta divenuto successore di Pietro, assume per così dire una nuova personalità. Come esprime anche il cambiamento del nome. Benedetto, un nome che parla. E che la gente percepisce con intuito immediato, magari anche senza sapere che Benedetto XV è stato il papa della pace e delle missioni, o che san Benedetto è, per decisione di Paolo VI, patrono principale dell’Europa. Avvertendo oscuramente – ma con la sicurezza donata ai più semplici – che sarà un pontefice benedetto. Così come aveva avvertito l’umile autorità del decano del collegio cardinalizio mentre celebrava le esequie del suo predecessore o mentre spiegava le letture bibliche della messa «per il papa da eleggere» che ha preceduto il brevissimo conclave. «Ha gli occhi buoni», diceva sottovoce ieri mattina un’anziana signora romana a un’amica, in fila all’ambulatorio. E pur protestando la sua ignoranza, la semplice donna confidava che quell’uomo – di cui aveva sentito parlare come di un cardinale «molto preparato» – a lei ispirava fiducia e proprio lui sarebbe stato il più degno successore di Giovanni Paolo II. Ecco, anche se non sappiamo come sarà grande Benedetto XVI, avvertiamo tutti che la statura – spirituale, prima ancora che intellettuale – del pastore e del teologo è stata individuata, dal collegio dei cardinali, come il motivo più evidente per sceglierlo a reggere la sede romana. In ventiquattr’ore. Confermando un dato che balza agli occhi di chi guardi alla storia dell’ultimo secolo e mezzo. Proprio da quando è iniziato l’ultimo declino del potere temporale, la Chiesa di Roma ha saputo esprimere – conclave dopo conclave, da Pio IX sino a Benedetto XVI – personalità d’indubbio spessore storico. Joseph Ratzinger è stato infatti un intellettuale di assoluto rilievo. Come teologo, soprattutto, e come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, capace di colloquiare con tutti: i suoi studenti in Germania, intellettuali laici di prestigio in Italia e fuori. Ma il Conclave ha eletto in lui il vescovo di Roma. Per la prima volta in tempi recenti, i cardinali martedì sera si sono assiepati alle logge di San Pietro – intorno a Benedetto XVI affacciato alla loggia centrale – colorando di rosso la facciata della basilica. Sembrava una di quelle miniature medievali che esprimono in questo modo la collegialità della Chiesa di Roma, sottolineata ieri dal papa nella Cappella Sistina. Quelle macchie rosse dicevano che il nuovo papa non è e non sarà solo. Anche perché è entrato nel cuore dei cristiani con le sue ultime parole prima di varcare la porta del Conclave: «Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza, il gesto capace di toccare il cuore, la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane». Parole che tutti hanno capito.

Non serve strattonarlo. Si collocherà da solo

di Maurizio Blondet

Poche ore, e già Benedetto XVI è stato "spiegato", "interpretato", "situato": conservatore e non-pacifista; la sua posizione sulle donne e sugli omosessuali, sull’Islam; la sua idea di Chiesa; quale tendenza cattolica, lui Papa, "vince" o "perde". Tempesta mediatica forse inevitabile. Ma da inesperto, senza titolo alcuno, direi che questo Papa, prima, è da ascoltare. Interpretare il suo pensiero e indovinare le sue intenzioni, o peggio attribuirgliene di già confezionate, è un esercizio inane, visto che sa scrivere limpidamente, e s’interpreta da sé. Solo, va ascoltato. E con molta attenzione. Anzitutto perché parla in lui una cultura superiore, una finezza intellettuale che fu propria ancor ieri della sfera alta d’Europa – quella di Spengler e di Thomas Mann, di Mahler e di Heisenberg – ma che oggi suona insolita ad orecchie assuefatte alla chiacchiera da talk-show e al pressapochismo da telegiornali. Noi europei siamo parecchio scaduti da quel livello. Papa Benedetto è a suo agio nella complessità, e la riduzione in pillole del suo pensiero rischia di tradirne il cuore. Chi se ne intende dice che Ratzinger teologo è lontano sia dall’approccio "cosmologico" del tomismo, che risaliva a Dio attraverso la spiegazione del mondo naturale, sia da quello "antropologico" di certa teologia conciliare con le sue derive, fra cui la teologia della liberazione; e gli attribuisce una posizione "agostiniana", centrata sull’assenso intimo al dono di sé che ci ha fatto Gesù sulla croce. A che porti questa linea ardua che va dal medievale Bonaventura al contemporaneo Von Balthasar, un inesperto non sa dire. Ma può portare ad aperture che stupiranno i conservatori, e lasceranno senza fiato i progressisti. Magari perfino a un riavvicinamento oggi inaudito ai protestanti; senza alcun compromesso, s’intende, sulla Presenza Reale. Sto anch’io già "interpretando"? Avete ragione, mi scuso. Mi ripeto da me l’invito: ascoltare papa Benedetto, prima di tutto. Anche perché, ci avete fatto caso, non dice mai frasi di circostanza. Mai. Così quando, come ieri nella prima omelia da Pontefice, ha ribadito la sua volontà di «proseguire nell’attuazione del Concilio», non era la stanca ripetizione di un auspicio clericale che ci sentiamo ridire da quarant’anni; no, qui parla uno che fu tra i più entusiasti al Concilio e poi ne è stato – per certi versi – tra i più delusi, e non l’ha taciuto. E quando ha evocato la "comunione collegiale" con i vescovi, l’ecumenismo con i cristiani e il dialogo con i non cristiani, non era la consueta litania di formule più o meno spente del gergo professionale della nomenklatura talare. No, ognuna di queste formule nella sua bocca ha un contenuto limpido, preciso e concreto: è un impegno preso, e anche un impegno che sarà chiesto agli interlocutori. Vale la pena ascoltarlo, perché con lui comincia l’imprevisto. Innoverà, sfronderà quel che è morto, cambierà oltre i sogni più arditi dei progressisti; e – come può fare solo uno che è così fermo sul centro della fede (l’Eucarestia) e sulla continuità della tradizione – senza che il più schifiltoso dei conservatori ci trovi da ridire. Non so come esprimerlo, ma è un po’ come quando Gesù esordì: «Non sono venuto a cambiare uno jota della Legge», per poi cambiare tutto: ma nel senso dell’assoluta fedeltà al Padre, del ritorno a Lui.

Sarà un Papa di sorprese

di Marco Roncalli

Alla fine, a differenza di molti esiti precedenti, non è stato eletto il cardinale ignoto quello a cui nessuno aveva pensato – ma colui che nei dibattiti del preconclave aveva attirato ogni attenzione: Joseph Ratzinger, il decano del collegio cardinalizio promosso al ruolo di papabile – e di papa – dopo essere stato ritenuto a lungo solo "un grande elettore" o il "deus ex machina del conclave". Il quorum necessario è stato raggiunto in fretta proprio da colui che sino all’ultimo – estraneo ad ogni gioco – mai aveva manifestato la più pallida auto-candidatura. Anzi, che poco prima dell’ingresso nella Cappella Sistina, durante la "Missa pro eligendo romano pontifice", aveva pronunciato un’omelia chiarissima, sintesi del suo lavoro accanto a Karol Wojtyla, più adatta però a perdere che a guadagnare consensi tra gli incerti. Più che un’omelia, rileggendola, un’agenda di lavoro inequivocabile. Ad essere sinceri, anche tra vaticanisti, storici, addetti ai lavori, la sua designazione, era sempre stata considerata più simbolica che reale. Però è diventata realtà. Ratzinger, settantotto anni appena compiuti, dal 1981 prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, con il nome di Benedetto XVI, è il nuovo pontefice: eletto nel primo giorno pieno del Conclave. È certo che, con questa scelta, i cardinali hanno caricato le loro attese circa il futuro della Chiesa sul mite porporato tedesco (ma anche "romano"), ritenendolo l’autore della diagnosi più realistica dello "status quo", ma anche del più solido ed articolato programma per il pontificato che ora inizia nel segno della continuità con il precedente, in una Chiesa sempre più destinata non tanto a sussurrare alla coscienze, ma ad agire come forza visibile, esposta con fierezza militante al turbinìo delle domande dal mondo contemporaneo. Con Ratzinger si apre un pontificato che già qualcuno connota "di transizione", eppure potrebbe riservare non poche sorprese. Custode tenace dell’ortodossia, ma anche movimentista sui generis, teologo insigne ma anche profondo conoscitore delle pieghe degli uomini, Ratzinger non ha mai negato la necessità di sburocratizzare la Chiesa, di auspicare autentica collegialità, di favorire un cauto decentramento, pur insistendo sempre sull’essenzialità della fede e sull’assoluta corrispondenza tra i valori professati e i comportamenti morali. Le sorprese magari potranno non venire dalla visione ecclesiologica ratzingeriana (ben palesata anche a Subiaco, il 1 aprile, nella sua conferenza prima della morte di Wojtyla), con le dure critiche a quanti «riducono il nocciolo del messaggio di Gesù, il regno di Dio, alle parole d’ordine del moralismo politico», ma il nuovo Papa non ha mai dimenticato sia Pietro che ammoniva ad essere sempre «pronti a dare ragione della nostra speranza», sia Paolo pronto a parlarci di «un amore eccedente la ragione». Europeo, il neo-pontefice resta l’intellettuale che vede negli uomini e nelle ideologie che fanno a meno della fede il primo problema della Chiesa del terzo millennio, problema allarmante in un’Europa incatenata da una cultura che «costituisce la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell’intera umanità», come ha detto nel «manifesto» Subiaco. Tuttavia, come già è stato dimostrato in passato, anche i papi di "transizione" (tale fu indicato per esempio il conservatore Roncalli che indisse subito il Vaticano II) possono compiere gesti inimmaginabili .E non è detto che – nel suo nuovo ruolo – questo "dono dello Spirito Santo" possa osservare in modo nuovo i cattolici marginali e critici, o approfondirne le istanze più diffuse. Conservatore dunque, anzi nuovo-conservatore con idee limpide quanto ai contenuti di dottrina e morale, missione ed evangelizzazione, preoccupato sì delle evoluzioni ecumeniche e interreligiose, ma in primis dei conflitti culturali tra le proposte della Chiesa e quelle antagoniste caratterizzanti le culture d’Occidente (e d’Oriente) di oggi, intellettuale fine capace di dialogare con correnti di pensiero laiche vicine e lontane (Fukuyama, Habermas, Spengler…), questo figlio genuino del popolo bavarese, tanto parco e sobrio nello stile di vita quanto schivo nelle esibizioni, ha del resto affidato a migliaia e migliaia di pagine il suo pensiero, nella sua genesi e nella sua evoluzione, nei suoi riferimenti e nelle sue intuizioni. E qui non ci riferiamo solo a robusti tomi di teologia, di cristologia, ecc. editi dalla fine degli anni Sessanta ad oggi soprattutto dalla Queriniana, San Paolo, Cantagalli, Jaca Book, Morcelliana, ecc. (quasi una cinquantina almeno i titoli suoi in libreria a documentare un intenso percorso di studi per affermare Gesù Cristo), ma anche ad interessanti libri-intervista di genere divulgativo (come non ricordare il Rapporto sulla fede con Vittorio Messori nel 1985 e Il sale della terra con Peter Seewald nel 1997) e persino ad una parziale autobiografia (La mia vita, Ricordi 1927-1997). Un libro quest’ultimo da rileggere in fretta e dove si percepisce una continua attenzione alla Chiesa, intesa quale organismo vitale all’opera nella storia degli uomini e dei popoli. Come ha scritto l’attuale patriarca di Venezia Scola: «Una peculiare, intrinseca connessione tra rivelazione e storia, sperimentata fin da bambino nella fede della famiglia e della popolare Chiesa di Baviera, costituisce la caratteristica metodologica che fa da filo di Arianna attraverso tutti gli scritti di Joseph Ratzinger, e finisce per caratterizzare, lungo gli anni, il giovane studioso, il professore, il pastore e il prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede. Qui sta, l’origine della continuità e dell’evoluzione del suo pensiero». «Voi dunque, per i Pastori di domani, proponete un nuovo coraggio nell’annuncio della fede?», aveva chiesto quattro anni fa l’abbé Claude Barthe all’allora prefetto della Congregazione per la dottrina. E Ratzinger aveva risposto: «Assolutamente. Con la certezza che, se il Signore è con noi, potremo affrontare i problemi del nuovo millennio. Per quanto riguarda candidature e sondaggi, trovo tutto questo alquanto ridicolo: noi abbiamo un Papa, ed è il Signore che decide in tutto del quando e del come. È vero che essere pastore oggi nella Chiesa esige un grande coraggio; ma anche con la nostra debolezza – io sono un uomo debole – possiamo ugualmente accettare il rischio di fare il nostro dovere di pastori, perché è il Signore che agisce. Egli ha detto ai suoi Apostoli che nell’ora del confronto, non avrebbero dovuto pensare con inquietudine a come difendersi e a cosa dire, poiché lo Spirito avrebbe loro insegnato cosa dire». E aggiungeva: «Questa è per me una cosa molto reale. Anche con la mia poca forza, e direi proprio a causa di essa, il Signore potrà fare in me ciò che vorrà. Nella Scrittura vediamo sempre svilupparsi questa struttura: il Signore sceglie, per agire, coloro che di per sé non potrebbero fare gran cosa. È in questa fragilità umana che Egli dimostra la propria forza, come dice San Paolo. In questo senso, io credo che un pastore non abbia mai motivo di aver paura, nella misura in cui lascia agire in sé il Signore». Più di prima questo, ora, vale per lui.

Sant'Agostino, la sua passione

di Gian Maria Vian

Ripensare i fondamenti della fede cristiana. Per renderla comprensibile e plausibile all’uomo di oggi. E dunque per annunciare Cristo. Così si può riassumere il senso dell’opera teologica di Joseph Ratzinger, brillante teologo già prima del Concilio Vaticano II, divenuto a cinquant’anni arcivescovo e cardinale, fino alla sua chiamata a Roma – quattro anni dopo – per guidare il più importante dicastero della Curia, quello dottrinale. Una guida naturalmente molto impegnativa – e lunga quasi un quarto di secolo (preceduta solo da quella, in tempi molto diversi, di Francesco Barberini, dal 1633 al 1679) – ma che non ha mai interrotto l’attività intellettuale del porporato. Molto presto Benedetto XVI – che pure sulla loggia ha usato parole semplici – viene riconosciuto come la mente teologicamente più acuta e preparata del Collegio cardinalizio, di cui dal 2002 è decano, anche da quanti non sono in sintonia con l’antico professore dell’Università di Ratisbona, dal sorriso timido e lievemente ironico, che non di rado si può incontrare la mattina presto, mentre attraversa piazza San Pietro per recarsi al "lavoro", con sottana nera, basco e una cartella di cuoio, come un semplice curiale d’altri tempi, gentile nel rispondere ai saluti. La formazione e le prime pubblicazioni di Ratzinger ruotano intorno a due grandi figure della tradizione cristiana: sant’Agostino e san Bonaventura. Al genio africano il giovane studioso dedica la sua tesi di dottorato, pubblicata nel 1954 ma tradotta in italiano nel 1971 (Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book), sull’onda del successo riscosso anche in Italia due anni prima dall’ Introduzione al cristianesimo (Queriniana), il commento al Credo apostolico che nel 1968 aveva venduto in Germania cinquantamila copie in pochi mesi, meravigliando l’autore. Dalla riflessione ecclesiologica basata sugli scritti agostiniani (ma anche su quelli del filodonatista Ticonio), Ratzinger passa all’armoniosa teologia della storia sviluppata dal pensatore francescano medievale. È poi la volta di temi importanti, in libri presto tradotti in molte lingue, tra cui ovviamente l’italiano: nel 1962 Fraternità cristiana (Paoline), nel 1966, con Karl Rahner, Episcopato e primato (Morcelliana), nel 1971 Il nuovo popolo di Dio (Queriniana). Anche se Agostino e Bonaventura rimangono fondamentali, come sottolinea Ratzinger nella prefazione al volume di Aidan Nichols che introduce al suo pensiero teologico: «Il lavoro di ricerca fu fecondo in quanto già allora potei constatare che una spiritualizzazione antiistituzionale del concetto di popolo era aliena da Agostino e dalla tradizione occidentale». Mentre lo studio su Bonaventura «doveva venire ripreso altre volte per ricordare a teologi unilateralmente propensi al presente e al futuro l’ineliminabile legame al passato, al centro vivo che è Cristo, del pensiero e della realtà cristiana». Ma anche per equilibrare il rapporto tra Scrittura e tradizione, o tra primato e collegialità. Attraverso i suoi studi Ratzinger dialoga con i più grandi teologi cattolici del Novecento (Henri de Lubac, Hans Urs von Balthasar, Yves Congar, Jean Daniélou, Romano Guardini) e poi con i maggiori autori protestanti e ortodossi. Accanto ai libri Ratzinger moltiplica gli articoli in riviste scientifiche, frutto spesso di lezioni o conferenze, e anche del dibattito con gli studenti e altri interlocutori, che influisce sulla stesura finale dei suoi testi. E appunto la capacità di colloquiare è una delle radici del larghissimo successo degli scritti del teologo, ben al di là della cerchia ristretta degli specialisti. Preoccupato sin dalla fine degli anni Sessanta per le fughe in avanti che travolgono e tradiscono le intenzioni del Concilio, Ratzinger lancia più volte l’allarme, esponendosi a critiche aspre che dapprima lo dipingono come un pessimista e finiscono per costruire l’immagine caricaturale di un nuovo "grande inquisitore". Come teologo e pastore vede invece con lucidità e respinge le tendenze che rischiano di appiattire l’esperienza cristiana sulla dimensione politica, che inaspriscono le critiche alla Chiesa, che dissipano il patrimonio liturgico e la sua capacità pedagogica, che arrivano addirittura a relativizzare la salvezza portata da Cristo. Per Ratzinger, che al di là di stereotipi è davvero ecumenico, il protestantesimo è domanda più che pericolo, e lo stesso ateismo è una sfida, perché il cristianesimo non sia proposto come insieme di teorie ma come «la forza di una vita proveniente dalle profondità della fede, la forza di quell’immenso amore che solo può dire d’aver conosciuto il Dio di cui sta scritto che è Amore». Come sottolinea la conclusione dell’Introduzione al cristianesimo: «Chi davvero crede, sa che si marcia sempre "in avanti", non in un circolo vizioso. Chi crede, sa che la storia non assomiglia affatto alla tela di Penelope, continuamente ritessuta per poi venir continuamente disfatta». Infatti, il mondo nuovo la cui immagine chiude la Bibbia non è un’utopia, ma «la certezza cui andiamo incontro tenuti per mano dalla fede. Esiste ed è già in atto una redenzione del mondo: ecco la ferma fiducia che sostiene il cristiano, galvanizzandolo con la convinzione che vale davvero la pena anche oggi esser cristiani».

Ma il suo vero nome è Pietro

di Dino Boffo

«Tu seguimi». Per ben sette volte nell’omelia della messa esequiale in suffragio di Giovanni Paolo II, il cardinale Joseph Ratzinger aveva ripetuto l’imperioso invito di Gesù a Pietro, come a garantire che era quella la chiave di lettura più certa per interpretare l’intera esistenza di Karol Wojtyla. Da elemento retorico a presentimento autobiografico? Non lo sappiamo. Di sicuro c’è che quell’invito pasquale di Gesù ieri pomeriggio è risuonato ancora una volta nella Cappella Sistina, attraverso il voto dei cardinali elettori, ma rivolto stavolta allo stesso Joseph Ratzinger. «Tu seguimi». E lui, abbandonando tutto, l’ha seguito.
Colpisce ancora una volta la rapidità dell’elezione. Evidentemente la Chiesa, specie quella dei nostri tempi, non sopporta di essere orfana. Quella del sabato santo è un’assenza perentoria ma – grazie a Dio – circoscritta, un’assenza che preme sulle pareti per sbocciare prima possibile e fiorire nella Pasqua. Oggi è Pasqua. Benedetto XVI è il dono che il Signore ci fa in questo mistico tempo pasquale dell’anno 2005.
Di lui crediamo di sapere molto, e altro ancora ci verrà riversato nei prossimi giorni e anni. Impareremo presto peraltro a misurarci con lui, lui nel suo nuovo ruolo. Ricordandoci magari di quello che un giorno disse un esperto di queste cose quale il cardinale Siri: «Un Papa nasce nel conclave. Viene al mondo quando nella Sistina riceve i voti della maggioranza dei cardinali. In quel preciso momento l’eletto cessa di essere tutto ciò che è stato prima». Finale di citazione un po’ troppo severa? No, riflette una saggezza antica della Chiesa. Noi amiamo pensare che nel Papa nuovo ritroveremo tutto ciò che in lui abbiamo già imparato ad apprezzare, e molto di più. Egli ora è in una condizione assolutamente inedita, non paragonabile ad altre, che gli farà sprigionare le riserve dalla Provvidenza custodite allo scopo.
In una conferenza sul ministero petrino che tenne, guarda caso, il 18 aprile di 14 anni fa, il prefetto della Congregazione per la fede diceva che c’è una confortante e indubitabile convergenza nei dati biblici circa la verità sul primato. «Non è un’invenzione», obiettò. E insistette sull’idea di Pietro-roccia. Roccia che si oppone alla marea di incredulità, roccia contro la riduzione della Parola a quanto c’è di facilmente plausibile. Per questo esiste – spiegava – un collegamento stretto tra la pietra d’inciampo e la roccia. E per questo il chiamato non deve spaventarsi, non può indietreggiare. Proprio così, ha detto. Non aveva indietreggiato neppure Karol Wojtyla, nonostante il suo innato pudore. Anzi, il pontificato romano con lui stava toccando un’autorevolezza grande. E concludeva: «C’è un grande bisogno del Papa oggi, anche fuori della Chiesa».
Ora possiamo dirgli, nel caso non lo sapesse, che c’è un grande bisogno di lui, della sua fede e della sua energia creativa per aiutarci a guardare dalla parte dove spunta l’aurora.
La folla ieri sera l’ha già applaudito scandendo il nome di Benedetto. Così lo chiameranno gli atti apostolici e i giornali. Ma il suo nome più vero, ricordiamocelo, è Pietro.

Quel braccio di ferro con Lefebvre

di Salvatore Mazza

«Negli ultimi mesi abbiamo investito una buona mole di lavoro nel problema di Lefebvre...». C’è tutto l’understatement ratzingeriano nell’incipit di una relazione nella quale, nel luglio del 1988, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede raccontava il succedersi degli eventi che avevano portato, alla fine del giugno precedente, al consumarsi dello scisma. E questo nonostante le «concessioni davvero ampie» che erano state fatte alla Fraternità ribelle, nonostante tutti gli sforzi, nonostante un accordo già firmato – il 5 maggio – e disdetto il giorno dopo dal vescovo francese. Una fase concitata, di cui Benedetto XVI è stato il protagonista; e lui, considerato all’epoca quasi un "persecutore spietato" dei teologi "progressisti", davvero inflessibile si dimostrò con i fautori di una restaurazione che, in sostanza, puntava a svuotare di significato il Concilio. «Il mito della durezza vaticana di fronte alle deviazioni progressiste – osservava nella stessa relazione il cardinale Ratzinger – si è palesato come una vacua elucubrazione. Fino a oggi si sono emesse fondamentalmente soltanto ammonizioni e in nessun caso pene canoniche in senso proprio. Il fatto che Lefebvre abbia denunciato alla resa dei conti un accordo già firmato, mostra che la Santa Sede... non gli abbia accordato quella licenza globale che desiderava». Fu proprio Ratzinger, in un drammatico faccia a faccia con il leader del movimento tradizionalista, a sbarrare di fatto la strada alle pretese di Marcel Lefebvre. Era il 4 maggio, e il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede si incontrò col presule in una casa di suore sulla via Aurelia, a Roma, presenti anche i teologi delle due parti che avevano messo a punto l’accordo . Sul tavolo le carte, pronte per la firma: in esse «Lefebvre aveva riconosciuto di dover accettare il Vaticano II – raccontava ancora Ratzinger – e le affermazioni del magistero post-conciliare, secondo l’autorità propria di ciascun documento». Il documento, insomma, è lì. Lefebvre chiede: «Ora che abbiamo deciso che posso avere un vescovo, per quando fissiamo la data di consacrazione?». Ratzinger fa presente che la domanda, così posta, è prematura, è il Papa che deve fare la nomina. Lefebvre insiste: il 30 giugno? Troppo presto. Il 15 agosto? Difficile. Il 1° novembre? Forse. Natale? Chissà. Il presule francese, il giorno successivo, avrebbe firmato l’accordo perché «non volevo si dicesse – scrive in un’intervista – che non stavo ai patti». Ma il 6, in una nuova lettera, annunciava che il 30 giugno avrebbe «comunque» proceduto a una consacrazione episcopale «anche senza il consenso di Roma». In sostanza, una lettera che disdiceva l’accordo firmato 24 ore prima. Gesto spiegato dallo stesso Lefebvre proprio a partire dal faccia a faccia con l’allora cardinale tedesco: «(Davanti a quell’incertezza sulla consacrazione espiscopale ndr) Mi sono detto: è finita. E ho compreso che tutte quelle trattative servivano a ingabbiare la Fraternità per farci accettare il Vaticano II». «Non era ammissibile – commentò tempo dopo, in privato, Ratzinger – che si potesse imporre al Papa che cosa fare e quando farlo». Con tutte le conseguenze del caso. Per dirla in parole molto semplici, il presule francese aveva tentato di risolvere la lunghissima controversia teologico-pastorale innescata vent’anni prima con un’ultima, estrema furbata, una sorta di braccio di ferro finale che, in seguito, gli avrebbe consentito di poter vantare un cedimento di Roma alle sue condizioni. Ratzinger, in questo, gli tagliò la strada. E lo costrinse a mettere sul piatto le sue carte quando, qualche giorno dopo la lettera del 6 maggio, gli rispose che la consacrazione si sarebbe potuta fare il 15 agosto, guarda caso la seconda delle date indicate da monsignor Lefebvre. Che però, a quel punto, s’era già spinto troppo avanti. La Chiesa, insomma, non aveva accordato quella «licenza globale» che il presule ribelle pretendeva. E che fino all’ultimo, con una forzatura di troppo, aveva cercato di prendersi. Salvo che dall’altra parte del tavolo, a giocare, non s’era trovato di certo uno sprovveduto.

Ha difeso la verità che oggi annuncia

di Inos Biffi

L’itinerario di Joseph Ratzinger incomincia con la teologia e con lo studio della sua storia; anzi della teologia della storia colta in uno dei grandi autori scolastici: "La teologia della storia di san Bonaventura". Gli anni d’insegnamento che seguirono lo collocarono nel fervore del rinnovamento teologico, promosso dal Vaticano II, che lo vide esperto. Si venne così dispiegando la sua attenzione al sapere teologico – natura e compito della teologia –; all’essenza del cristianesimo – Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico –; alla figura della Chiesa –. Il nuovo Popolo di Dio –, della liturgia e della sua riforma.
Emerge nel lavoro di Ratzinger teologo, che si venne sempre più maturando e approfondendo, emerge una duplice sensibilità. La prima riguarda il senso della tradizione ecclesiale specialmente patristica – da lui studiata e messa in luce in Agostino – Popolo e casa di Dio in Agostino –, per cui il pensare teologico è colto ed esercitato non nel distacco, ma all’interno della vita e della storia della Chiesa, nel senso del primato di Cristo, al quale la Chiesa è tutta relativa, poiché la passione della Chiesa, egli notava, non è quella di narrare e proporre se stessa, ma Gesù Cristo. «Una Chiesa senza teologia – scriveva Ratzinger – si immiserisce e diventa cieca, una teologia senza Chiesa si dissolve nell’arbitrario»; e aggiungeva: «La teologia suppone la fede. Essa vive del paradosso di una unione di fede e di scienza».
La seconda sensibilità è quella di un dialogo e insieme di una lettura critica nei confronti della filosofia e in generale della cultura contemporanea, con speciale sensibilità all’importanza della ragione e della teoretica, o della verità, senza della quale la teologia risulterebbe depressa e mobile.
Questo modo di intendere e fare la teologia non può che rallegrare chi la intenda come una libera e illuminata crescita del Credo nel tessuto vivo della Chiesa, che fa del teologo «un uomo ecclesiastico».
Non sorprende, da questo contesto, che al ministero del teologo sia succeduto presto quello episcopale, segnato da un singolare stile di finezza pastorale, di ascolto e di grazia nel tratto, al quale si unisce una latina chiarezza e lucidità di linguaggio, cosa che rende i suoi libri trasparenti e gradevoli, il che non avviene sempre nella teologia tedesca e in quella italiana che la imita male.
L’approdo alla Congregazione per la Dottrina della Fede della rappresenta l’attività più compiuta ed ecclesialmente più importante: un’attività di vigilanza alla purezza della fede, piena di riguardo per le persone, ma anzitutto preoccupata della verità, dove si fondevano il senso della misura, la diagnosi lucida, la giustificazione pacata, e dove occorresse la denunzia coraggiosa e ferma, quando o nel campo dei dogmi – come nella cristologia o nella ecclesiologia – o della prassi cristiana egli rilevasse dottrine non coerenti con la fede. Possiamo ricordare i suoi interventi, non poco incompresi e osteggiati, a proposito del sacerdozio femminile o quello fondamentale – e purtroppo largamente rimosso – sul Signore Gesù (Dominus Iesus) assolutamente unico Salvatore e sull’unicità della Chiesa di Gesù Cristo.
Egli, che della teologia e della filosofia del nostro tempo ha larga conoscenza, non ha in particolare taciuto non solo i rischi ma le derive in atto a motivo del relativismo che sta affliggendo non solo la "sacra dottrina", ma la Chiesa stessa.
Ora che Joseph Ratzinger è divenuto il vicario di Pietro, ha ricevuto la missione da Gesù affidata Pietro: quella di confermare la fede, ossia di essere roccia nella professione dell’identità di Gesù, proseguendo con Pietro e con tutta la Chiesa a confessare: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello vivente». Singolarmente la Provvidenza lo ha preparato all’assunzione di questa grazia.

Un bel gruzzoletto di perline in dono al Papa

di Giordana Fresslassie

Caro Papa Bendetto XVI, ho una perlina per te. Una perlina, come quelle che don Gnocchi regalava ai suoi mutilatini ogni volta che sopportavano una medicazione dolorosa o un’operazione chirurgica senza piangere. Una perlina, come prometteva don Carlo sarebbero diventate le loro lacrime di dolore se fossero state offerte a Gesù. Una perlina, come quelle che quei ragazzi regalarono a papa Pio XII, formando con i loro piccoli "gioielli" due stampelline incrociate, circondate da una corona: perché solo in Gesù il dolore ha un senso e il pianto di tanti bimbi che ancora oggi soffrono nel mondo può ricevere la corona del merito e del premio. Caro Papa, anch’io ho una perlina per te. Mi chiamo Giordana, ho 17 anni e vivo su una sedia a rotelle. Sono di origine eritrea e da undici anni sono ospite della Fondazione Don Gnocchi, nel Centro "S. Maria Nascente" di Milano. Ho ancora nel cuore l’incontro con Giovanni Paolo II, nel 2002, in occasione dei cento anni della nascita di don Gnocchi. Quel giorno ebbi l’incarico di leggere una lettera al Papa. Sul treno mi ero preparata bene, per non fare errori. Eppure, appena cominciai a leggere, sbagliai accento e lo chiamai "papà".
Mi ricordo i suoi occhi, il suo sorriso, la sua carezza: mi sono sentita avvolta dal suo affetto e dalla sua tenerezza. È stato bellissimo, mi sono sentita amata e nello stesso tempo ho capito che anche lui chiedeva a me di fare altrettanto. E allora ho pensato alla storia delle perline, che tante volte le suore e gli operatori della Fondazione ci ripetono. Le ho raccolte tutte nel mio cuore – le mie lacrime, i miei pianti, la mia sofferenza – e ho pregato perché arrivassero a Giovanni Paolo II, così provato dal dolore. Ho fatto ancora così, quando ho saputo che stava molto male. E ho pianto, alla notizia della sua morte. Ma sapendolo in Cielo, mi sono detta: «Sono felice per te, mio papà, perché so che da lassù ci guardi e ci proteggi lo stesso». Caro Papa, ora ho un altro bel gruzzoletto di perline. È il bello di questa nostra vita di disabili: ogni giorno, io e miei amici, quante ne possiamo guadagnare... Vorremmo avere tante mani e tanti cuori, per diffondere questo nostro tesoro in un mondo che ne ha davvero bisogno. Le nostre perline di questi giorni sono state per coloro che dovevano scegliere il nostro nuovo "papà", perché lo Spirito santo li illuminasse e li guidasse. Ora sono soprattutto per te, caro Papa. Perché il tuo compito non sarà facile. Perché il mondo di oggi ha bisogno di testimoni autentici, che sappiano indicare a tutti la via dell’amore, la sola che ci porta a Cristo e ci rende felici. Come aveva scritto don Gnocchi: «Dio è tutto qui: nel fare del bene a quelli che soffrono e hanno bisogno di aiuto». Le parole e gli esempi di Giovanni Paolo II e dei Papi che lo hanno preceduto ci confortano e ci aiutano: anche noi cerchiamo ogni giorno di fare la nostra parte. Mi aveva molto colpito la devozione di don Gnocchi e di papa Wojtyla per la Madonna: anch’io, qualche anno fa, sono stata a Lourdes e proprio là ho ricevuto la mia prima comunione. In cuor mio, spero di tornarci presto: sento il bisogno di chiedere a Maria nuova forza e altro coraggio per le mie piccole, grandi conquiste quotidiane. È una promessa: saranno tutte perline per te, caro Papa nuovo.

Non cercava simpatia. Eppure lo hanno votato

di Maurizio Blondet

"Josephum..." Basta che il cardinal Medina pronunci il nome, ed è il tuffo al cuore. È lui, non c’è dubbio. Dai televisori accesi in redazione la folla romana tuona ed esulta a San Pietro, come nei tempi antichi; qui fra noi c’è un istante in cui diventiamo muti, è la storia che ha battuto un colpo. Si sente che il brevissimo conclave ha fatto la scelta forte. «Ratzinger», finiamo per sussurrare in due o tre, come a confermarlo a noi stessi. «Un Papa tedesco», dice una collega, come incredula. «Ma quale tedesco! È romano», rimbecca un altro. «E anche Sant’Ambrogio, non era tedesco?», nota un altro. «L’Europa», diciamo in tanti: «La "vecchia" Europa». Affascinati lo vediamo apparire al balcone, la familiare figura ora del tutto nuova. Alza le mani in un saluto che ha qualcosa di studentesco – perché attorno a Ratzinger c’è sempre stata come un’aria di studente di università medievale, uno di quelli col cappello a lunga punta, giovani e teologi, che erravano da Parigi a Pavia dietro maestri come Tommaso ed Anselmo – ma il suo sorriso mite e ben noto è un poco tirato. La croce, quella croce di Pietro, è già sulle sue spalle. Ma con quella croce è la gioia, e questo è il momento della gioia, e lui è lieto sotto il legno invisibile, pesante, con cui dovrà avanzare nel futuro che tutti ci attende. Il nome, il nome, zitti... «Benedictus decimus sextus...». Ed è anche questo un segno forte, ardito. Un salto all’indietro, scavalcando i Pii, i Giovanni, i Paolo e Giovanni Paolo, verso... Verso che? «Cosa fece Benedetto XV», ci domandiamo in fretta. «Era il Papa che chiamò la Grande Guerra l’inutile strage». Passano sullo schermo mentale immagini della Belle Epoque annegata nel sangue, l’immane barbarie in cui l’Europa si dissanguava con furia e bieco entusiasmo perfino, i filmati grigi di quel vecchio Papa che levò la voce della verità. Ancora la "vecchia" Europa, l’Europa come centro del Cristianesimo e che stava già diventandone la tomba, e che deve tornare centro. «Una scelta pre-conciliare», azzarda qualcuno. «San Benedetto: il patrono d’Europa», ricorda un altro. Ancora l’Europa. Silenzio, parla. «Cari fratelli e sorelle», comincia lui (Benedetto, ci dovremo abituare) con la sua voce non forte, da studioso che non ha mai gridato, «dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, semplice umile lavoratore nella vigna del Signore». Le vocali dure, da studente alto-medievale. «Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare, agire, anche con strumenti insufficienti». «Tipico Ratzinger: semplice, conciso». «Anti-retorico». «Non cerca simpatia». Se ci si pensa, davvero, è incredibile. Dalla morte di Papa Wojtyla, Ratzinger non ha fatto nulla per ingraziarsi i cardinali. Al contrario. «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa! Quanta superbia, quanta autosufficienza!». E la Chiesa, l’ha chiamata «una barca che fa acqua», un campo con «più zizzania che grano». Nessun candidato in campagna elettorale, in nessun governo umano, direbbe cose così dure e recise ai suoi elettori. Lui le ha dette, e i cardinali hanno scelto lui come Pontefice e guida. Quell’uomo così calmo, così intimamente sereno, e così soavemente estraneo a concessioni. «Ora procediamo alla benetikzione», dice breve e calmo il nuovo Benedetto XVI, e come se mettesse mano all’inizio di un lungo lavoro, ecco che pronuncia in quel latino dalle consonanti dure (forse così parlava Ambrogio di Treviri): «...Indulghentiam...kor semper paenitens...finalem perseveranktiam...». Ci segnamo, certi che la Croce è in buone mani.

4.21.2005

Lo sguardo commosso del cardinale di ferro

di VITTORIO ZUCCONI

SONO le 18 e 50, ora di Roma, quando Benedetto XVI guarda per la prima volta il mondo guardare lui, nello sforzo reciproco di capirsi e nella fatica di ricominciare a voler bene a un nuovo Papa. Nel suo sguardo un po' attonito e quasi commosso, per un cardinale di ferro come Joseph Ratzinger, e nell'applauso affettuoso, ma non esplosivo, del popolo che aveva già intuito il nome dalla velocità della scelta, c'è il languore di una sera romana spossata che ha bruciato troppa passione e ha pianto troppe lacrime in questa piazza per non sentire la fatica, e non avvertire il desiderio, di un Papa che provvidenzialmente promette più dottrina che sensazioni.

Ci saranno molti minuti di silenzio, tra lui e la piazza che si guardano e si studiano, nei 600 secondi che il successore di Giovanni Paolo II trascorrerà sulla loggia delle benedizioni fino alle 19, dopo il brevissimo discorso che passerà alla storia come "il discorso del lavoratore nella vigna" e dopo la prima benedizione letta con mezze lenti da presbite, per non sbagliare una coniugazione o una declinazione in latino.

Sono pause che raccontano l'enormità del vuoto che lui è stato chiamato da ieri sera a colmare. Se non c'era, qui nel cuore dell'universo cattolico, lo sbalordito entusiasmo che sentii esplodere quel 16 ottobre del 1978, quando il cardinale Felici annunziò il nome misterioso di Karol Wojtyla, c'era invece, e in pieno, nei secondi agitati del "bianco, nero, grigio, bianco" sbuffato alle 17 e 50, lo stesso squisito panico da sala parto, dove fratelli, sorelle e famigliari convenuti da tutto il mondo attendono l'annuncio che è nato e che la vita della casa svuotata da una morte ricomincia con il pianto di un bambino o con la voce di un Papa. Siamo tutti parenti di colui che sta per nascere e sta per essere esposto alla nostra curiosità in quella ineguagliabile "nurserie" che è Piazza San Pietro, tornata a essere luogo di nascite dopo essere stato luogo di lutto. Non ci sono atei, per una sera, tra i centomila che sono arrivati di corsa giù per via della Conciliazione e dai vicoli del Borgo Pio aggrappati ai loro telefonini quando le 64 postazioni televisive ammucchiate sfacciatamente in piazza Pio XII hanno inquadrato il comignolo, agitando bandiere nazionali e cartelli fatti in casa, come il "Benvenudo Successore di Giovanni Paolo"
esibito da un Antonio venuto dall'Irpinia, corretto poi a pennarello in "Benvenuto".

Un Papa nuovo è insieme un padre e un figlio, per la comunità dei cristiani cattolici, come lui sa perfettamente, chiedendo a noi di pregare per lui.
Non ci sono forzature telegiornalistiche capaci di modernizzare l'incanto anacronistico della stufa. O di attualizzare il rito della finestra che si apre alle 18 e 40, imponendo un silenzio identico, e opposto, a quello che ascoltai nelle ore finali di Giovanni Paolo. La tenda rossa scura di velluto che si apre a fatica, mossa da mani che pasticciano un po', che tirano e mollano, nell'emozione che sta dietro il sipario come tra noi davanti, è la rappresentazione perfetta di qualcosa che i fedeli meno giovani ricordano nelle Messe di un tempo, l'apertura del tabernacolo nel quale il celebrante teneva sotto chiave calici e ostie per la Consacrazione.

Qualcosa, alla tirannide della "globalizzazione", il cardinale cileno Medina Estevez deve pur concedere, quando saluta con un'espressione dura "fratelli e sorelle, brothers and sisters, bruedern und schwestern, hermanos y hermanas" prima di fare l'annuncio. Ma neppure questi ammiccamenti alla modernità cambiano l'affresco stupendo della facciata che si macchia improvvisamente di puntolini rossi, dei 114 cardinali che si affollano piccini sui tre balconi accanto alla Loggia papale e finalmente ridono, scherzano, si additano l'un l'altro i gruppetti dei tifosi con le bandiere nazionali assiepati sotto e delusi perché il loro campione non ha vinto. Non
più principi della Chiesa, come li vidi aggrondati, massicci e sconvolti dal vento, ai funerali di Giovanni Paolo, appena dieci giorni or sono, piuttosto sollevati, come scolari dopo l'esame. E minuscoli, insignificanti, nell'arco dalla scala disumana dei finestroni sulla facciata.

Poi arriva Lui, l'atteso, il desiderato, il temuto, il Papa. Magnifico, nella stola di tutti i suoi predecessori ricamata con le immagini di Pietro, sotto la mozzetta rossa di seta sulle spalle, eretto, nonostante quei 78 anni che soltanto le dispettose inquadrature televisive alle spalle ci mostreranno un po' incurviti, da anziano, le mani giunte sopra la testa.
Era un gesto di vittoria quasi da sportivo, che il giro collo rosso alto di lana sotto la veste, come fosse il maglioncino di un giocatore impegnato in una notturna fredda, sottolinea. Comunica soltanto con gli occhi, che sembrano, nelle lenti mostruose dei teleobbiettivi, avere anche pianto, forse in quella "stanzetta della lacrime" alla sinistra dell'altare nella Sistina, dove lo hanno vestito nei 55 minuti tra il fumo del comignolo e l'apparizione. Sono occhi infossati, leggermente cerchiati, lo sguardo di chi legge e scrive molto, 700 opere filosofiche e teologiche, dicono le biografie. Non ha, visibilmente, una naturale comunicativa, non è un "grande comunicatore" alla Reagan o alla Clinton, non emana la simpatia popolare di Roncalli, la disarmante semplicità di Luciani nè la carica vitale di Wojtyla. Non commette neppure errori di grammatica, come quel mitico "mi corriggerete" che fece crollare istantaneamente ogni barriera linguistica tra il "Papa non Italiano" e la piazza romana. Il suo accento tagliente, quel suo "Ciovanni" invece di Giovanni non è un errore che possa intenerire la folla al primo incontro, è la sua pronuncia bavarese di un italiano prefetto che neppure una lunga vita a Roma ha potuto smussare del tutto.

Conto, per abitudine di cronista, la durata dell'applauso iniziale, 40 secondi, che poi diventeranno un minuto e mezzo dopo due pause e due riprese, il numero di battimani che interrompono il discorso della vigna, sette, come se questo fosse uno show o un congresso di partito. Finisce il suo breve ma bellissimo discorso, almeno nel parere di un ascoltatore come chi scrive senza presunzioni mistiche, ripulito da quelle asprezze da Sant'Uffizio della omelia nella "Missa pro Eligendo Papa", piene di espressioni di umiltà e di vulnerabilità, forse rituali, ma rasserenanti.
Tace, sotto lo sguardo dell'arcivescovo Marini, alla sua sinistra, che lo segue con l'espressione benevola, ma distante di chi, un paio di giorni or sono, vidi misurare con lo stesso sguardo la fossa vuota che attendeva la bara di Giovanni Paolo, nelle Grotte. E poi, prima della benedizione che annuncia in fretta, "e ora la benedizione", come se l'avesse dimenticata, e dopo il rito, piombano i commoventi momenti di silenzio, di tensione, almeno per noi parenti davanti alla "nurserie". Lui guarda noi senza vederci, e noi guardiamo lui cercando di capire, di immaginare che cosa sarà da grande, cioè da Papa.

Vorremmo che parlasse, che ci dicesse ancora qualcosa e i minuti del suo sorriso, teso come siamo tesi noi, sono attimi lunghissimi. Vorrebbe dirci ancora qualcosa? Ha paura di tradire di nuovo quella emozione che i teleobbiettivi hanno visto negli occhi cerchiati e infossati e che la voce spezzata al momento di pronunciare la parola "Filii", nel benedire il mondo "in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti" ha tradito? Qualcuno, nella piazza tornata a essere pubblico spietato, "audience", consumatori di eventi, e non più famiglia in trepidazione, gli volta le spalle e se ne va, annoto sul taccuino, mentre il silenzio di una conversazione muta che si
fatica a cominciare è strappato da un allarme che stride da un appartamento, o da un negozio scosso dalle vibrazioni, in Piazza Pio XII, petulante, volgare, inarrestabile. Aveva cominciato a piovere, nei minuti tra la fumata e l'annuncio, e le nubi che arrivavano sulla piazza dal sud est promettevano guai. Quando la finestra si è aperta, ha smesso.

Benedetto XVI, il Papa che ha assunto il nome del primo Pontefice che, dopo la fine del potere temporale, osò bollare senza mezzi termini la guerra e chiamarla per quello che è, un'"inutile strage", quel Benedetto XV che - come Ratzinger sa - riposa proprio davanti alla tomba di Wojtyla, è tornato dentro la protezione della sua basilica alle sette di sera. Non ha fatto né detto altro che congiungere ancora le mani davanti al viso, guardato da quelle mistiche levatrici soddisfatte in porpora rossa che lo avevano fatto nascere e che più tardi sarebbero andate a cena con lui, nell'ostello di Santa Marta, dove avevano vissuto insieme gli ultimi due giorni, ma non più da pari. La piazza dove la Chiesa Cattolica muore e risorge da mezzo
millennio, nella rappresentazione concreta e periodica del proprio messaggio religioso, si svuoterà in fretta, sbugiardando quei primi piani televisivi che inquadrano il gruppetto di esaltati sotto i riflettori.

Ci lascerà, con lo stupore di chi l'aveva vista appena 18 giorni or sono a un funerale e ne esce ora dopo un battesimo, l'immagine di quel cardinale schiacciato dal silenzio e dalla propria fama di uomo di ferro. Lo abbiamo visto, ma non lo abbiamo conosciuto, immobile e incerto accanto allo stesso bastone pastorale che fu messo sotto il braccio sinistro di Wojtyla nella composizione finale della salma. Resterà un mistero umano imprigionato nella propria introversione come un altro grande Papa, Paolo VI? Imparerà a camminare più spedito nelle colossali impronte "mediatiche" lasciate dal predecessore?

Rimango con l'impressione inspiegabile, con la superficiale sensazione di un cronista, che questo non sia affatto un uomo duro, ma un uomo spaventato dalla propria tenerezza, che si rifugia dentro il silenzio che lo avvolgerà questa sera, dopo le celebrazioni, le cene, le congratulazioni, le campane, quando la luce si spegnerà e rimarrà solo nel letto dove dormì il suo "Ciovanni".

Ma quale Panzer Kardinal, è un mite

di Vittorio Messori

Credo che una certa emozione mi sarà perdonata. Scrivo a caldo, in effetti (televisore spento, telefono e telefonini staccati) subito dopo avere appreso di essere stato coautore di un libro con il Pontefice defunto e di un altro con quello appena eletto. Cose che sembrano troppo grosse e impegnative, per uno che da molti anni ha abbandonato Milano per vivere tranquillo sul lago di Garda, che va di rado a Roma e ancor più di rado in Vaticano, che più che di attualità ecclesiale ama occuparsi, seppur da divulgatore, di storia della Chiesa e di esegesi biblica. Eppure, non so come, ma è andata così: l'invito a pranzo a Castelgandolfo, la scoperta che Giovanni Paolo II leggeva i miei libri (sin dal primo, Ipotesi su Gesù , che volle egli stesso far tradurre in polacco) e poi la domanda imprevista, che mi mise in crisi e mi fece esitare ben più che esultare. «Perché non mi fa qualche domanda?».
Ne nacque quel Varcare la soglia della speranza , dove le risposte del papa - la sola cosa che conti, in quel libro - mi commossero, pensando che le aveva scritte tutte a mano, in polacco, al termine delle sue giornate massacranti. Soltanto dopo scopersi che, tra i motivi per i quali papa Wojtyla aveva voluto darmi tanta fiducia («Faccia lei!», mi disse quando gli chiesi se aveva qualche indicazione da darmi) c’era anche il fatto che il cardinal Joseph Ratzinger gli aveva confidato di essere rimasto soddisfatto del lavoro che avevamo fatto insieme. Fu nell’estate del 1984. Il cardinale bavarese da meno di tre anni era stato nominato da Giovanni Paolo II Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede come, in linguaggio teologicamente corretto, era stato ribattezzato l’antico Sant’Offizio.
Ratzinger mi interessava molto. La fede, l’ortodossia sembravano essere messe in pericolo nella tribolazione postconciliare della Chiesa ma, all’inizio di quella tempesta, c’era anche il ruolo che il giovane teologo aveva giocato come consulente dell’ala progressista dell’episcopato tedesco. I Ratzinger, i Küng, gli Schillebeeckx ed altri tedeschi, olandesi, francesi avevano fondato Concilium, la rivista della contestazione più radicale perché più «scientifica», fatta non solo sugli slogan ma anche sugli studi approfonditi. E invece, qualche anno dopo, ecco Ratzinger non solo cardinale ma addirittura nel palazzo romano che era stato dei Grandi Inquisitori. «Non sono cambiato io, sono cambiati loro», mi rispose quando, tra le prime domande, gli chiesi di questa sua riconversione alla Tradizione.
Voleva dire che si era accorto come quella teologia per la quale aveva parteggiato, più che approfondire la fede per farne risaltare gli aspetti più consoni ai tempi, predicava la rottura, la discontinuità, presentava il Vaticano II non come il ventunesimo Concilio ecumenico della Chiesa ma come un nuovo inizio che esigeva la tabula rasa di quanto lo aveva preceduto. Mentre nel caso di papa Wojtyla fu sua l’iniziativa del libro intervista, non così con il cardinal Ratzinger: fui io che, attraverso amici comuni, gli feci pervenire la richiesta e osai addirittura sollecitarla più volte.
La cosa fece sorridere gli addetti ai lavori che ben sapevano come, nei secoli, il Sant’Offizio fosse stato caratterizzato dal segreto più rigoroso (ci volle, appunto, Ratzinger per decidere di aprire agli studiosi un archivio che era sempre stato inaccessibile) e, dunque, giudicavano velleitaria la mia proposta: un’intervista! Un libro, addirittura, con il Prefetto della Fede! Si ha forse voglia di scherzare? E invece, l’improbabile avvenne. Un paio di giorni prima del Ferragosto del 1984 parcheggiavo la mia auto nel parco del bel seminario di Bressanone che, durante l’estate, offriva un’economica villeggiatura a preti e a famiglie cattoliche senza troppe pretese. Tra quei villeggianti, un sacerdote dal volto intenso e dai modi aristocratici, malgrado le origini piccolo borghesi, i capelli già candidi, un corpo minuto, un modesto clergyman senza alcuna insegna. Il Cardinal Prefetto da anni passava così le sue due settimane di vacanza annuale. Di quei pochi giorni, tre - e non so ancora perchè - aveva deciso di riservarmeli. Ci vedevamo al mattino e conversavamo sino a pranzo, davanti al registratore che girava.
A tavola, le buone, corpulente suore tirolesi ci servivano qualche loro rustico piatto. Un breve riposo e poi di nuovo davanti al magnetofono. Le ultime due sere, per ritocchi e precisazioni, ci vedemmo anche dopo cena. Da quei colloqui, nacque quel Rapporto sulla fede che non fu soltanto un clamoroso best seller in una ventina di lingue (negli Usa, terra di cattolicesimo tradizionale, The Ratzinger Report era venduto, in tascabile, nei supermercati) ma determinò una tale reazione, pro e contro, nella Chiesa intera che l’anno della sua apparizione è indicato ormai dai manuali come la fine della fase caotica dopo il Concilio.
Prima di dire qualcosa del suo pensiero, è dell’uomo Ratzinger che vorrei parlare. La leggenda - e, purtroppo, l’odio ideologico di tanti, in un certo mondo clericale - ne ha fatto un Panzer-Kardinal , un disumano fanatico dell’ortodossia, un vero erede dei Grandi Inquisitori. Il Ratzinger della realtà, non del mito, è tra gli uomini più miti, comprensivi, cordiali, addirittura timidi, che mi sia stato dato di conoscere. Potrei dire di lui quanto ho testimoniato, di recente, al processo di beatificazione di monsignor Alvaro del Portillo, il Prelato dell’Opus Dei che è stato il primo successore dell’ormai santo Escrivá de Balaguer: «Un sacerdote con il quale, dopo qualche ora di colloquio, veniva voglia di deporre penna e taccuino per chiedere di confidarsi, magari di confessarsi». Con Ratzinger non mi confessai, ma sarei stato lieto ce ne fosse stata l’occasione.
Uomo austero, certo: a metà del pomeriggio, le suore del seminario di Bressanone portavano un vassoio con cioccolata e tè e con eccellenti biscotti e torte fatte da loro. Ero io, ed io soltanto, che mi servivo con gusto. Per Sua Eminenza, solo un bicchier d’acqua da sorseggiare lentamente. Ma, particolare significativo, un’austerità che (a differenza di troppi fanatici del moralismo) riservava a sé e non pretendeva dagli altri. Ne ebbi conferma in uno dei nostri altri incontri, anni dopo quando, parlando dei giorni di Bressanone, gli dissi sorridendo che, almeno un poco, avevo sofferto per lui, rinunciando a fumare per tutte quelle ore. Lo vidi sinceramente costernato: «Ma perché non me l’ha detto? Non mi avrebbe disturbato affatto. Anzi, pur non fumando, le dirò che mi piace l’aroma del tabacco». Forse non era vero. Ma ammirai questa sua premura per mettere a suo agio l’interlocutore.
Uomo, tra l’altro, di fine umorismo, pronto al sorriso: ricordo una sera a tavola, dopo un premio che gli era stato dato, che volle sapere da me alcune delle barzellette che circolavano sul suo conto nelle parrocchie. Gliene riferii qualcuna e lo vidi davvero divertito. Del resto, c’è da chiedersi che cosa resti della leggenda nera dell’Inquisitore se si fa un bilancio dei suoi 24 anni come Prefetto della Fede, scoprendo che la misura più grave presa contro un teologo della liberazione (quella da cui veniva contro di lui un fiume di contumelie) fu il caffè cui invitò, nel suo ufficio, Leonardo Boff e la disposizione di interrompere per un anno il fiume di interviste, di dichiarazioni, di manifestazioni. Dal palazzo di piazza Sant’Uffizio è uscito il brontolio, doveroso, di molti tuoni ma da essi non si è scatenata alcuna folgore, le celebri segrete nei sotterranei del cupo palazzo non sono state ripristinate per alcuno.
In realtà, per amore della Chiesa, Joseph Ratzinger ha fatto il maggiore dei sacrifici, la rinuncia alla sua vocazione vera, quella dello studioso di teologia, di professore che divide il suo tempo tra la biblioteca e il contatto con i giovani. C’è sempre stato, in lui, il disagio di dovere intervenire criticamente sul lavoro di certi suoi colleghi: se lo ha fatto è perché questo era il suo dovere, questo il duro compito dell’«operaio chiamato a lavorare la vigna del Signore», come ha detto nelle prime parole da papa.
Perché quel nome e non un Giovanni Paolo III, come pure gli avrebbe suggerito la fedeltà, l’affetto, anzi la fratellanza con il suo predecessore? Ma perché Paolo VI proclamò san Benedetto da Norcia patrono dell’Europa (e Wojtyla vi aggiunse Cirillo e Metodio, apostoli dell’Oriente) e, dunque, la scelta di quel nome è un ribadire quali siano le radici cristiane dell’Europa che la Costituzione dell’Unione non ha voluto riconoscere. Rapporto sulla fede uscì, dicevo, nel 1985. Mancavano soltanto quattro anni al crollo del Muro eppure nella Chiesa vasti settori erano ancora nella fase dell’innamoramento di un comunismo che avevano scoperto con passione pari al ritardo. Tutto, in quel libro, provocò l’indignazione di chi si diceva «progressista» (e stava invece per finire fuori della storia), tutto ma innanzi ad ogni altra la definizione che Ratzinger vi dava del marxismo: «Non speranza, ma vergogna del nostro tempo».
Non fu, comunque, quel colloquio, «il manifesto della restaurazione», come molti dissero. Fu, semplicemente, la riconferma della fede di sempre, l’anticipo di ciò che sarebbe stato ribadito nel Nuovo Catechismo. Mancano il tempo e lo spazio per prevedere almeno qualcosa di ciò che contrassegnerà il papato di Benedetto XVI (mi fa effetto chiamare così il buon, caro don Joseph!). Una sola cosa sulla quale credo di non sbagliarmi: un intervento rapido e drastico sulla liturgia per ridarle stabilità e sacralità. In ogni caso, lo Spirito Santo sa quel che fa. E, dunque, saprà ispirare al meglio il nuovo pastore.

La vera modernità di Benedetto XVI

di Ernesto Galli della Loggia

Eleggendo Papa Joseph Ratzinger la Chiesa cattolica ha mostrato innanzitutto la sua vitalità storica e la sua collaudata sapienza in quanto corpo politico, sia pure di un tipo specialissimo. Posta infatti di fronte a una difficile successione, la sua suprema assemblea non ha ripiegato sul compromesso e sulle mezze misure. Essa ha tagliato con risolutezza il nodo mostrando cosa significhi un rapporto antico e consapevole con la dimensione della leadership. E ha scelto.
Ha scelto non già un arcigno conservatore o un occhiuto inquisitore: a dispetto di molti timori e di molti pregiudizi, Joseph Ratzinger non è questo. Egli è principalmente un testimone della nostra drammatica epocalità, l’uomo consapevole che—nella vampa infuocata dei tempi — interi universi storici, interi mondi antropologici e culturali che per secoli ci hanno plasmato, minacciano di venire annientati e di scomparire; e sente che, lungi dal corrispondere a un qualsiasi progresso, ciò apre solo la strada verso il nulla. Al pari di una parte significativa dell’élite intellettuale europea e americana che oggi sente in modo non dissimile, anche Ratzinger, negli anni Cinquanta e Sessanta, ha immaginato altri orizzonti che per quell’élite furono gli orizzonti dell’emancipazione sociale attraverso la rottura politica, per lui quelli del Concilio. Ma poi egli pure ha dovuto prendere atto delle dure repliche della storia e della mutata atmosfera dei tempi; e come altri egli pure ha avvertito il bisogno di sintesi e di pensieri nuovi sì, ma che fossero capaci innanzitutto di non perdere il legame con il passato e con ciò che ne deriva alla nostra identità.

È proprio nella comune riscoperta dell’essenzialità delle radici e della parte che in queste ha il retaggio giudaico-cristiano per la cultura laica, è il depositum fidei per quella religiosa, il senso dell’inaspettato riavvicinamento tra le due: riavvicinamento che costituisce uno dei grandi fermenti nuovi dei tempi che si annunciano o che forse già sono. L’intellettuale teologo Ratzinger, alimentato dalla grande tradizione di cultura della sua e della nostra Germania, è stato uno degli attori decisivi della riscoperta e del riavvicinamento che dicevo. La sua celebre conversazione con Jürgen Habermas, uno dei massimi pensatori laici contemporanei, sui grandi problemi della scienza e della trasmissione della vita, è destinata molto probabilmente a restare come una pagina altamente simbolica della vicenda intellettuale dei nostri anni.

Tra le convenzioni del discorso pubblico attuale c’è quella per cui chi non è disposto a disfarsi senza fiatare del passato e dei suoi valori sarebbe un nemico della modernità e dunque, alla fine, della felicità umana. Ma ogni giorno che passa il rapporto tra modernità e felicità diventa più ambiguo; troppo spesso ogni nesso tra le due sembra svanire e apparire inesistente. Batte insomma alla porta del nostro presente l’urgenza di una diversa modernità. Essere moderni, cioè liberi ed eguali, ma senza la tutela protettiva del potere e senza l’invasione ricattatoria della tecnica; essere moderni, cioè rendere effettivamente universale, ma senza passare attraverso scontri mondiali sanguinosi, «l’acquisto per sempre » di civiltà che storicamente questa parte del mondo ha fatto per sé e per ogni altro; essere moderni, ma senza rotture irreparabili e costruendo un nuovo senso del limite: ciò che vuol dire, anche, non poter non riconoscersi in una storia e in una memoria iniziate con un giovane ebreo in Palestina duemila anni fa, le quali aspettano oggi dall’intelligenza e dal cuore di Benedetto XVI l’impulso per restare nel nostro presente.

Quando disse al Papa: non sei infallibile

di Luigi La Spina

Ha smentito uno dei più collaudati proverbi di quella scienza inesatta che è la vaticanologia. Smentirà anche le previsioni di quella, ancor più inesatta, che scruta il futuro sulle basi del passato. Era il pronosticato d’obbligo per un conclave breve e ha perso la scommessa chi non lo pensava Papa proprio per questo. Sbaglieranno anche coloro che, giudicandolo un feroce conservatore, ora temono che la Chiesa chiuda le sue porte al mondo e si rinserri in una torre dottrinale fatta di severità morale e di angustia dell’intelletto. Il pontificato di Benedetto XVI probabilmente riserverà qualche sorpresa a chi non conosce bene Joseph Ratzinger, tedesco del Sud che, nonostante le apparenze e la lunga esperienza, sia come pastore di diocesi sia come uomo di Curia, conserva nelle pieghe del carattere una punta di timidezza e, perfino, di sentimentalismo. Solo valutando la scelta dei cardinali con minore superficialità, infatti, si può comprendere perché sul suo nome si sia unita, molto in fretta, la larghissima maggioranza del collegio votante. Compreso il suffragio della cosiddetta area progressista del Conclave.

La ricostruzione dei retroscena di questa elezione papale parte necessariamente dai colloqui e dagli interventi che hanno preceduto, dopo la morte di Giovanni Paolo II, la chiusura della Cappella Sistina. Sono due cardinali che tutti conoscono e di cui tutti apprezzano la statura intellettuale, spirituale e il prestigio morale a redigere, con i loro interventi, il bilancio dello stato della Chiesa appena superato il terzo millennio. Sono due coetanei: il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, e l’arcivescovo emerito di Milano, Carlo Maria Martini. Proprio i loro giudizi smentiscono le banali classificazioni che ne fanno due capi di partiti opposti: l’analisi della situazione, invece, è molto simile e la sollecitazione per una scelta che individui una guida all’altezza dei gravi problemi della Chiesa d’oggi, con un programma molto impegnativo, sgomenta l’intera assemblea dei cardinali. La convergenza dell’allarme di questi due «grandi vecchi» spazza immediatamente le ipotesi di candidature di transizione, la scelta di figure di mediazione o di profilo, da tutti i punti di vista, men che altissimo. Gli accenti, tra Ratzinger e Martini, sono naturalmente dissimili. La loro cultura, per entrambi profonda, ha ispirazioni diverse. Il primo risente dalla drammaticità del realismo agostiniano, il secondo ha più fiducia nel valore della testimonianza. Sia nelle omelie e nei discorsi del cardinale tedesco, sia negli interventi e nel testo scritto lasciato ai porporati dal gesuita piemontese si nota, però, un uguale profondo «impegno dell’anima».
Anche altri interventi colpiscono l’uditorio, perché mettono in luce problemi impegnativi. Sono quelli, ad esempio, del primate d’Ungheria László Paskai, il quale sostiene l’esigenza che il carisma del nuovo Papa dia a tutti, credenti ma anche non credenti, un segnale di speranza e riesca a costituire un punto di riferimento morale come lo è stato Giovanni Paolo II. Pure l’opportunità di una riorganizzazione funzionale, amministrativa e legislativa della Curia viene sollecitata dal neocardinale Attilio Nicora con grande chiarezza giuridica.

L’indisponibilità, per problemi di salute, del cardinal Martini alla candidatura e, nel contempo, la difficoltà di contrapporre al prestigio di Ratzinger una personalità di simile valore sulla quale possa convergere una maggioranza alternativa al «teologo» di Karol Wojtyla, inducono tutti a confluire, abbastanza presto, su chi sceglierà il significativo nome di Benedetto XVI.
La prima sorpresa di questo pontificato, del resto, è stata offerta subito, dal primo atto del Papa: proprio la scelta del nome. Tutti conoscevano il ruolo di strettissima collaborazione da lui esercitato con Giovanni Paolo II, confermato anche dalle parole di umile ossequio rivolte al suo predecessore nel breve saluto alla folla plaudente della piazza. Ecco perché ci si aspettava, soprattutto da lui, che il successore di Wojtyla allungasse la serie dei Giovanni Paolo. Invece la continuità è stata proclamata e certamente non sarà rinnegata, ma anche questo piccolo segno di novità fa intravedere il desiderio di marcare immediatamente uno stile diverso.

La finezza intellettuale di Benedetto XVI porterà certamente la Chiesa a riaffermare fermezza di dottrina e rigore morale, ma esclude intransigenze conservatrici come quelle che esaltano i suoi più accesi tifosi e impauriscono i suoi altrettanto accaniti avversari. A titolo esemplificativo della prudente saggezza e del grande equilibrio del nuovo Papa, siamo in grado di rivelare una vicenda significativa che, finora, era rimasta riservata. Sappiamo tutti quali siano le opinioni di Ratzinger sui temi della bioetica e, in generale, della morale. Così, quando un gruppo di vescovi, capitanato soprattutto da quelli americani, consegnò a lui, in piena campagna tra Bush e Kerry per le presidenziali Usa, un documento per sollecitare, proprio in campo etico, una presa di posizione ufficiale da parte del Pontefice, al fine di imporre, con l’infallibilità che possiede il Papa quando parla «ex cathedra», una linea molto intransigente, ci si attendeva un consenso entusiastico del capo della competente Congregazione. Ratzinger lesse questo documento, lo portò e lo fece leggere a Giovanni Paolo II come lo avevano pregato di fare i firmatari. Ma, con loro sorpresa, consigliò il Papa a non aderire a quella richiesta: proprio per non coinvolgere il Santo Padre in una polemica, per di più in una delicata scelta elettorale, che non attiene, in maniera stretta, a credenze di fede, ma comporta anche giudizi di comportamenti umani, approcci culturali, sfumature intellettuali. Questioni in cui un intervento di tale autorevolezza, in quel momento, avrebbe irrigidito, invece di approfondire la discussione con i laici e rischiato di influire pesantemente contro le chances di vittoria del cattolico ma abortista Kerry.

Benedetto XVI farà suo l’ossimoro più in voga per definire il compito del nuovo Papa, quello della «continuità discontinua». Lo farà, proseguendo la grande missione nel mondo di Giovanni Paolo II con uguale energia e rigore. Cercando però, con una generosità d’animo che sorprenderà molti, di associare tutti, credenti e non, alla difesa dei grandi valori etici che hanno distinto le società civili da quelle dominate dalla barbarie.

Col suo «Wojtyla» la Germania riscatta il rimorso perenne

di Marina Verna


La Germania, stupefatta e grata, scopre che un tedesco può essere la grande autorità morale del mondo. A questa elezione credevano pochi, ancor meno dopo che domenica un giornale inglese - il «Sunday Times» - aveva dedicato una pagina intera all’arruolamento forzato, a 12 anni, nella gioventù nazista del cardinal Ratzinger. Ancora una volta, i tedeschi come pietra dello scandalo. Ancora una volta, il passato che non passa. E invece proprio l’uomo che incarna, sin dalla sua giovinezza bavarese, la Germania del XX secolo, diventa chi darà lezioni di morale al mondo intero.

Non è un caso che il cancelliere Gerhard Schroeder - che aveva voluto partecipare a Roma ai funerali di Giovanni Paolo II - abbia subito definito «un grande onore per la Germania» l’elezione di Joseph Ratzinger a nuovo Papa. «Mi felicito con lui a nome del governo federale e di tutti i cittadini», ha detto. E aggiunto: «Mi rallegro fin d’ora di poter incontrare il nuovo capo della Chiesa cattolica alla Giornata della gioventù in programma nel prossimo agosto a Colonia». Sarà probabilmente questo uno dei primi viaggi di Benedetto XVI. La Germania, che l’8 maggio ricorderà il 60 anni della sua capitolazione, non poteva trovare assoluzione più grande. Una ricompensa per tutto il lavoro di rielaborazione del suo passato, per tutta l’immane fatica di chiedere perdono e portare il fardello del colpa.

Benedetto XVI - un nome che non ha stupito chi conosce bene Joseph Ratzinger - riassume in sé settant’anni di storia tedesca. Viene dalla Baviera profonda, pia e morale. Conservatrice perché rocciosamente convinta dei suoi valori. Non aperta come la regione del Reno. Il cardinale di Magonza e presidente della Conferenza dei vescovi, Karl Leehmann, non è amico del nuovo Papa. Tra i pastori tedeschi, a sera solo il cardinal Meisner, di Colonia, s’è manifestato: «Sono molto contento. Ogni cristiano deve accettare e conservare il Vangelo. Il cardinal Ratzinger per noi teologi è come un Mozart della teologia».

È dalla Baviera dov’è nato che il nuovo Papa ha ricevuto l’imprinting che lo ha fatto diventare quello che è. Joseph Ratzinger ha dovuto vivere sulla sua pelle tutte le pene del suo popolo, e distaccarsene, per potergli offrire il riscatto, adesso che i tempi sono maturi e che l’elaborazione del passato sta giungendo a compimento. È nato da un padre piccolo impiegato statale - gendarme nelle caserme della campagna, eppure mai iscritto a nessuna associazione nazionalsocialista - e da una madre che andava con il rosario alle inevitabili riunioni delle associazioni hitleriane.
All’età di 12 anni, la direzione del seminario dove studia lo iscrive - come da obbligo - alla gioventù hitleriana, ma appena il collegio viene chiuso e trasformato in ospedale per feriti di guerra lui non frequenta più le riunioni anche se, ricorderà nella sua autobiografia, questo gli sarebbe costato la riduzione delle tasse scolastiche. Va in guerra come aiutante nella contraerea, ma appena torna va a studiare in seminario. Si laurea in teologia e comincia una vita di pensiero e di penitenza. A Friburgo prima, in Baviera poi. Partecipa al Concilio Vaticano II, ma poi diventa il custode della tradizione più conservatrice. La Germania che negli Anni 70 e 80 matura e diventa progressista non è più il suo Paese. E infatti lui sarà a Roma, lontano dai luoghi e dai tempi.

È solo da un uomo così che poteva venire il riscatto per tutta la Germania. Un Paese dove i cattolici sono appena il 40 per cento, ma intere regioni - tutto l’Est - sono atee. E chi crede è in maggioranza luterano. Epperò la Germania è il Paese che ogni anno versa nelle casse del Vaticano la somma più alta. Anche a questo pensava «politicamente» chi, nei giorni scorsi, credeva possibile una scelta tedesca.
Non è certo questo il senso della scelta che hanno operato a Roma i cardinali. Non è ininfluente invece il fatto che la Chiesa cattolica tedesca da sempre conosca e pratichi il dialogo con la Chiesa luterana. Quando, nella cattedrale della Nunziatura, è stato celebrato un Requiem per Giovanni Paolo II e la navata era troppo piccola per ospitare tutti i fedeli, è stata una vicina chiesa luterana ad accogliere quanti volevano partecipare alla Messa anche solo con uno schermo e a permettere che chi voleva si comunicasse.

La Chiesa cattolica tedesca è dunque abituata a essere una chiesa del dialogo. Non è un caso che le sue grandi figure siano sempre teologi, e teologi dal pensiero originale. Anche a costo di uno scontro - quanti col cardinal Ratzinger! - con il Vaticano. Oggi la chiesa evangelica tedesca reagisce con grande speranza e apertura, ma anche in una linea ben precisa. Il suo presidente, Wolfgang Huber, ha dichiarato: «Spero che lo spirito ecumenico venga ulteriormente portato avanti, perché il futuro del cristianesimo può essere solo ecumenico». E il vescovo Hans Christian Knuth, presidente delle Chiese evangeliche luterane riunite, ha espresso così le sue attese: «Speriamo che Benedetto XVI faccia della preghiera di Gesù il suo programma, "ut omnes unum sint", affinché tutti diventino una cosa sola. Le chiese esempio di come la differenza non esclude la comunanza, anzi, la rende possibile».

Anche le altre religioni si aspettano molto da Benedetto XVI. Il presidente della comunità musulmana in Germania, Nadeem Elyas, ha ricordato come «il cardinale Ratzinger, come braccio destro di Giovanni Paolo II, negli ultimi anni abbia sicuramente dato un grande contributo a mettere tra le priorità l’apertura verso le altre fedi. E il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Paul Spiegel: «Sono sicuro che il nuovo Papa intensificherà la strada della comprensione fra cristiani e ebrei».

Se l’ecumenismo è la nota dei religiosi, la fierezza è la nota dei politici. Il presidente della repubblica federale, Horst Koehler, ha riassunto così i sentimenti del suo Paese: «Auguro al papa di avere tanto coraggio e tanta forza. Che un nostro connazionale sia diventato papa ci riempie di particolare gioia. E di un po’ di fierezza». Dalla cattolica Baviera, dove le campane hanno suonato più forte e più a lungo che altrove, arriva la felicità del ministro-presidente, Edmund Stoiber: «È un giorno storico e unico per la Baviera e tutta la Germania. Che un tedesco sia stato eletto Papa è un momento di fierezza. E un grandissimo onore». Come 27 anni fa la Polonia, ieri la Germania ha trovato il suo Papa.

Severo con tutti, a cominciare dalla Chiesa

di Fabrizio Rondolino

Come e più di Paolo VI, Benedetto XVI è prima di tutto un grande intellettuale: non soltanto dunque un uomo di dottrina o il custode dell'ortodossia, come vuole la semplificazione mediatica, né soltanto un professore, un teologo, un grande erudito: ma, soprattutto, un uomo abituato a lavorare con i concetti, ad esercitare la fatica della ragione, ad interrogarsi con umiltà e con orgoglio sul senso della tradizione dell'Occidente greco ed ebraico-cristiano. La rigidità mostrata sempre da Joseph Ratzinger in materia di fede, di dottrina e di dogmatica, e che un enorme peso ha avuto nel pontificato di Giovanni Paolo II, nasce da un profondo pessimismo che, a sua volta, è frutto di una riflessione disincantata quanto lucida sul destino della modernità e sulla collocazione che, all'interno del Moderno, ha la questione della Verità - o, come direbbero i filosofi, la questione del fondamento. La polemica contro la «dittatura del relativismo», centrale nell'omelia pronunciata appena due giorni fa durante la messa solenne «Pro eligendo Pontifice», attraversa tutto il pensiero (e l'azione) di Ratzinger, perché ne delinea il nucleo fondamentale, e insieme il punto di crisi.

Le «meditazioni penitenziali» scritte per la Via Crucis della scorsa Pasqua suscitarono, giustamente, clamore: perché vi era poco di wojtyliano e molto di ratzingeriano; o meglio, perché contenevano non un bilancio del papato che si andava spegnendo, ma un impegnativo manifesto per il papato a venire. Se Giovanni Paolo II aveva più volte chiesto perdono al mondo per gli errori dei figli della Chiesa nella storia, Ratzinger invece chiede perdono non per le colpe del passato, ma per quelle del presente. E non chiede perdono al mondo, ma a Dio: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa».

La colpa fondamentale indicata dall'allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede è quella di una cristianità che, «stancatasi della fede, ha abbandonato il Signore», proprio come i discepoli che tradirono e abbandonarono Gesù sulla croce. Ma a questa colpa se ne aggiungono molte altre, particolari ma non meno gravi: la «sporcizia» di tanti sacerdoti, le «parole vuote» e la «poca fede di tante teorie» teologiche, l'abuso del sacramento dell'eucaristia, le messe in cui «celebriamo soltanto noi stessi» invece che Cristo, l'abbandono della confessione sacramentale e così via.

Per questo, nel suo ultimo «discorso programmatico» prima del conclave, l'omelia alla messa «Pro eligendo Pontifice», Ratzinger invoca «un pastore che non ci lasci in balia delle onde». «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni - dice -, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero. La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all'individualismo radicale, all'ateismo». E' contro la «dittatura del relativismo» che la fede deve far valere le proprie ragioni: o forse, se è concesso un gioco di parole, far valere il proprio essere ragione in senso forte, filosofico. La fede di cui parla Ratzinger si colloca storicamente (e culturalmente) in un mondo che ha vissuto i totalitarismi, che ha letto Nietzsche e Freud, che è transitato per la grande secolarizzazione fino ad approdare al disincanto del postmoderno. Non è facile trovare un’adeguata dimensione per la fede: che, infatti, sempre più spesso sembra diventare spettacolo, spiritualità indistinta, «new age». Ecco: se c'è stato qualcosa di eccessivo nella spettacolarizzazione mediatica che ha accompagnato e segnato il pontificato di Giovanni Paolo II, ciò lo si deve più al carisma personale di Wojtyla che alla dottrina di Ratzinger: la cui severità è plasmata da un pessimismo profondo, dalla consapevolezza di essere «minoranza» e «opposizione» - sempre.

Cinque anni or sono, in un'intervista alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», così rifletteva il futuro Benedetto XVI: «C'è qualcosa di vero nel concetto postmoderno di “ragione debole”. Anche il Concilio Vaticano II, che ha elaborato un concetto di ragione molto forte, ha aggiunto, allo stesso tempo, che nei contesti contemporanei la ragione è così indebolita da avere bisogno di aiuto, poiché da sola non ce la fa a riconoscere la verità. Ma è qualcosa di diverso se si dice (...) che nell'uomo non c'è nessun organo atto alla conoscenza della verità. Ed è proprio quest'ultima posizione che viene sostenuta in molte versioni del concetto postmoderno di “ragione debole”. (...) In questa prospettiva la fede sarebbe una risposta che non può seguire alla ragione, ma che illumina soggettivamente determinati uomini e che soddisfa le loro soggettive esigenze religiose. Se la ragione non è una sfera aperta alla fede, che è poi dalla fede raccolta e portata avanti, se essa stessa non è un luogo che può entrare in stretto rapporto con la fede, allora la fede rimane qualcosa di irragionevole, viene ridotta fideisticamente, appartiene quindi all'ambito dell'abitudine e non all'ambito della verità». Ratzinger non intende rinunciare alla verità, nel senso evangelico della testimonianza di fede, naturalmente, ma anche in quello «greco», filosofico, di ricerca del fondamento; è convinto che l'indifferenza dei valori e il relativismo assoluto del mondo contemporaneo siano di fatto figli della superstizione e della successiva dissoluzione della ragione illuministica, presuntuosamente sicura di poter tutto comprendere e tutto spiegare; e tuttavia difende vigorosamente la ragione come «organo atto alla ricerca della verità», come luogo in cui la fede trova radice e motivazione.

Per comprendere appieno il pensiero di Ratzinger, nella sua impostazione culturale agostiniana e nella sua traduzione «politica» di pastore della Chiesa, è utile rileggere la sua riflessione sul Concilio Vaticano II nel libro-intervista di Vittorio Messori («Rapporto sulla fede», 1985): «I Papi e i Padri conciliari si aspettavano una nuova unità cattolica e si è invece andati incontro a un dissenso che - per usare le parole di Paolo VI - è sembrato passare dall'autocritica all'autodistruzione. Ci si aspettava un nuovo entusiasmo e si è invece finiti troppo spesso nella noia e nello scoraggiamento. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un richiamo a un presunto “spirito del Concilio”». Affermazioni che suscitarono grandi polemiche, dentro e fuori la Chiesa, e che valsero a Ratzinger una volta per tutte l'epiteto di «reazionario». E tuttavia proprio in quel testo Ratzinger si proclamava sì «reazionario», ma nel senso di chi si oppone alla degradazione e alla dissoluzione dei valori e delle identità. Il futuro Benedetto XVI, infatti, denunciava vent'anni fa la presenza all'interno della Chiesa di «un'enfasi sulla modernità che ha scambiato il progresso tecnico odierno con un progresso autentico, integrale» e, all'esterno, «l'affermazione in Occidente del ceto medio-superiore, della nuova “borghesia del terziario” con la sua ideologia liberal-radicale di stampo individualistico, razionalistico, edonistico».

Cedere alle sirene delle leopardiane «magnifiche sorti e progressive», adorare la tecnica senza interrogarsi sui valori di cui è silenziosa portatrice, concepire la libertà come libertà assoluta «e non come libertà “per”, “da”, “verso” qualcuno o qualcosa» («Libertà e verità», 1996), è per Ratzinger il cuore del nichilismo contemporaneo, e insieme la ragione dell'opposizione radicale della Chiesa a questa modernità. «Voglio dire inoltre - specificava Ratzinger a Messori - che il dialogo con il mondo è possibile solo sulla base di una identità chiara: che ci si può, ci si deve “aprire”, ma solo quando si è acquisita la propria identità e si ha quindi qualcosa da dire. L'identità ferma è condizione dell'apertura». E poi, icastico: «Non sono i cristiani che si oppongono al mondo. È il mondo che si oppone a loro, quando è proclamata la verità su Dio, su Cristo, sull'uomo. Il mondo si rivolta quando il peccato e la grazia sono chiamati con il loro nome. E' tempo che il cristiano ritrovi la consapevolezza di appartenere a una minoranza e di essere spesso in contrasto con ciò che è ovvio, logico, naturale per quello che il Nuovo Testamento chiama - e non certo in senso positivo - “lo spirito mondano”». L'ultimo, estremo pensiero forte dell'Occidente - la terra del tramonto - forse non per caso abita oggi un teologo tedesco eletto al soglio di Pietro.