benedettosedicesimo

5.07.2005

Ogni mattina

di Luisa Muraro

Prima un polacco, poi un tedesco, un tedesco che gli e' stato fedele e
subordinato per vent'anni, questo ha un senso che in Africa o in America
Latina o in Asia possono ignorare ma noi in Europa no, e' il simbolo di una
ferita rimarginata e ci aiuta a ricordarla, simbolo parlante al posto di non
ricordarci piu' di niente, al posto di un'Europa messa insieme senza
passione.
Da questo punto di vista, ben venga come vescovo di Roma l'uomo che ha
scelto di chiamarsi come il papa che vide e pianse gli orrori della prima
guerra mondiale, cioe' la follia dell'Europa che apri' la strada alla
supremazia degli Usa, allora una potenza ancora misurata e savia, ma adesso
non piu'.
Purche' non sia un altro modo per continuare a credere di stare al centro
del mondo, un tremendo errore di prospettiva che prelude solo ad altre
guerre.
Se uno vuole non ricaderci e aiutarci tutti, c'e' un trucco e vorrei
insegnarlo a Benedetto XVI, ogni mattina alzarsi e dirsi: "sono solo un
uomo, sono solo un uomo" e non perche' c'e' Dio, che forse c'e' ma non e' il
nostro termine di confronto piu' prossimo, oh no, ci sono i bambini, gli
animali, le piante, i corpi celesti, le acque, il vento. E per uno come lui
e tutti gli altri uomini, ci sono le donne soprattutto, quella che lo ha
messo al mondo, quelle che gli hanno insegnato a leggere e a scrivere,
quelle che ha desiderato, non so niente, parlo cosi', ma di sicuro posso
dire le donne che hanno amato Dio e il prossimo quanto e meglio di lui e non
hanno mai messo in conto di diventare monsignore, vescovo, cardinale, papa,
e sono felici lo stesso e di piu' (quando sono felici).
"Sono solo un uomo, al vertice di una povera gerarchia senza donne, chissa'
per quanto tempo ancora", dirselo tutte le mattine e poi pensare a Gesu' che
lascio' i discepoli per fermarsi a parlare e a bere con la Samaritana. Mi
scusi, Santita' (che titolo!), scusami, Joseph, c'e' qualcosa in te che mi
ispira a parlare cosi', come un'improvvisata predicatrice, come una maestra
di strada. Forse e' il fatto che sei tedesco.

5.04.2005

Ravvivare il Concilio

Intervista a Giuseppe Savagnone


Fin dal primo messaggio, Benedetto XVI indica nel Concilio Vaticano II la "base" per il dialogo con gli uomini nel nostro tempo, tra le "nuove istanze" della Chiesa e quelle della "società globalizzata"…

"Credo che uno dei tratti distintivi di Joseph Ratzinger, in tutta la sua attività che ha preceduto la sua elezione al soglio di Pietro, sia stato – e rimanga - il costante tentativo di mostrare che il cristianesimo è una risposta adeguata ai problemi dell'uomo di oggi. Non ci può essere un'adeguata evangelizzazione senza la comprensione delle categorie del mondo contemporaneo: questo 'spirito' del Concilio è anche un'eredità di Giovanni Paolo II, che aveva la percezione netta che il Vaticano II andasse ripreso e attualizzato. Papa Ratzinger, come il suo predecessore, si pone il problema di dare reale attuazione al Concilio, che in larghissima misura è rimasto lettera morta. Dopo il papato di Giovanni Paolo II, ed il suo preziosissimo impegno missionario, credo che questo papato si caratterizzerà per una maggiore attenzione alle vicende interne della comunità cristiana: dalla Curia, campo delicatissimo e forse bisognoso di un forte rinnovamento, alle nomine dei vescovi, alla reale valorizzazione del laicato…".


Papa Ratzinger interpreta i funerali di Giovanni Paolo II come "richiesta d'aiuto" da parte dell'umanità, in cerca di punti di riferimento. Proporre Cristo "a tutti", anche alle altre religioni e a chi è "in ricerca", è segno di una visione di Chiesa troppo "rigida"?

"A mio avviso, la critica che Ratzinger ha sempre mosso al relativismo assoluto è motivata. Il cristiano è tale perché pensa che Cristo sia il culmine e la pienezza della rivelazione di Dio: ma ciò non significa 'buttare a mare' le altre religioni o bollarle come false. Già la dichiarazione conciliare 'Nostra Aetate' osservava che c'è un raggio di verità in tutte le religioni, e che pur non essendo possibile equiparare le altre religioni al cristianesimo occorre aprirsi alle altre religioni, nella misura in cui esse esprimano una verità: la stessa che la Chiesa cattolica deve continuamente cercare. Senza verità, il dialogo diventa un negoziato tra potentati: per il cristianesimo, verità e amore coincidono. Per questo non c'è separazione tra fede e vita, tra ragione e vita: proprio grazie al nesso inscindibile tra fede e ragione - ha insistito a più riprese Ratzinger – il cristianesimo può essere proposto a tutti gli uomini, e non solo ai membri di una determinata cultura o tradizione".


Nel messaggio, tra le priorità "culturali" del pontificato emerge anche il "dialogo tra civiltà"…

"Soprattutto dopo Giovanni Paolo II, il papato non può che essere planetario. Anche qui, l'invito di Ratzinger a 'ritrovare' la nostra identità non porta a nessuna 'crociata' contro chi è diverso da noi. Qualunque forma di fondamentalismo (anche cristiano) nasce, infatti, non dall'eccesso, ma dalla crisi di verità, dall'insicurezza, dalla mancanza di identità; chi è se steso serenamente, può 'rischiare' di aprirsi agli altri senza paura di essere inghiottito da essi. Uno degli indubbi meriti del pontificato di Giovanni Paolo II è stato quello di evitare uno scontro di civiltà, con la ferma posizione assunta sulla guerra in Iraq: tocca ora a Benedetto XVI ereditare questo impegno, in uno scenario planetario globalizzato, dove non esistono più scontri tra nazioni ma occorre essere 'custodi della pace' in un senso molto più ampio di quello a cui si riferiva Benedetto XV".

Il primo testo papale si conclude con un appello ai giovani: lo "stile" del nuovo Papa può convivere, e come, con l'"eredità" lasciata da Giovanni Paolo II in questo ambito?
"La 'sfida' tra i due Papi nasce dal temperamento: Benedetto XVI non è, forse, una personalità prorompente o comunicativa come quella del suo predecessore. Lo è, però, in un altro modo: con il riserbo, con il silenzio, con la parola molto misurata… Anche questo nuovo stile può 'parlare' ai giovani, perché costituisce una buona integrazione dell'entusiasmo estremo che suscitava Giovanni Paolo II tra le nuove generazioni. Quello tra Benedetto XVI e i giovani sarà, probabilmente, un incontro che chiederà ai ragazzi un passo avanti, ma che nello stesso tempo li renderà a loro volta più capaci di percepire ciò che non è immediatamente percepibile…".

5.03.2005

Il coraggio della fede

di Giorgio Campanini


L'elezione del cardinale Joseph Ratzinger alla Cattedra di Pietro rappresenta, per certi aspetti, un elemento di assoluta novità nella storia recente della Chiesa. Se non è insolito il fatto che a reggere la Chiesa sia stato un uomo con limitata esperienza pastorale diretta (pochi gli anni di episcopato a Monaco, come del resto avvenne anche per Roncalli a Venezia e per Montini a Milano), per la prima volta, da circa due secoli a questa parte, un teologo – quale Ratzinger è sempre stato, e in un certo senso si sente ancora – diventa Pontefice.
Numerosi, anche fra i recenti predecessori, sono stati i Pontefici di vasta cultura teologica, da Paolo VI a Giovanni Paolo II; ma Benedetto XVI è stato sin dall'inizio – e tale è sostanzialmente rimasto anche nel delicato incarico di responsabile della Congregazione per la dottrina della fede – un professore di teologia.
In un certo senso, dal suo "curriculum" di teologo si può, dunque, tentare di individuare quali saranno le linee del suo pontificato. Una prima e centrale linea – riconducibile ad una delle sue opere fondamentali, "Introduzione al Cristianesimo" (1968) – emerge dalla consapevolezza della strutturale "drammaticità" della situazione del Cristianesimo nel mondo contemporaneo e, dunque, dalla necessità di una sua riattualizzazione e di una sua ripresa, nella scia del Vaticano II, senza con questo indulgere alla cultura della peggiore modernità. Il grande tema conciliare dell'aggiornamento – che presuppone insieme fedeltà all'antico e apertura al nuovo – trovava in questa "Introduzione" una delle sue migliori espressioni. Il pontificato potrebbe rappresentarne una concreta traduzione nella vita della Chiesa.
Un secondo tema, precocemente presente al Ratzinger teologo, è stato quello del ruolo e della funzione del Papa e del suo rapporto con l'episcopato ("Episcopato e primato", 1966, in collaborazione - e l'abbinamento appare assai significativo - con Karl Rahner). Il problema, come noto, fu ben presente all'ultimo Giovanni Paolo II, ma non ebbe, non poté avere, adeguati sviluppi; e, tuttavia, come leggere e interpretare il "primato" di Pietro è questione ancora aperta e decisiva per il dialogo ecumenico.
L'allora giovane teologo di "Episcopato e primato" non può essere del tutto rimosso dalla memoria di chi è diventato ora Benedetto XVI.
È, infine, da prevedersi una specifica attenzione all'Europa, oggetto di interessante e vivace dialogo con il filosofo e uomo politico Marcello Pera (cfr Pera-Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, Cristianesimo, Islam, 2004).
Qui l'allora cardinale, pur riconoscendo l'esigenza di aprire l'Europa ad altre culture e a diverse tradizioni di pensiero, metteva in guardia contro il rischio di un "rinnegamento" dei valori cristiani e rivendicava al Cristianesimo, soprattutto nella sua forma cattolica, il diritto di proporsi come messaggio di una più alta e definitiva salvezza. In questo senso l'Europa non avrebbe potuto accontentarsi di un Cristianesimo ridotto a pura "religione civile"; ma era invitata a riscoprire la "grande tradizione spirituale" dell'Occidente.
La scelta stessa del nome – in riferimento sia al Benedetto XV della riconciliazione e della pace fra i popoli europei, sia, e forse soprattutto, al Benedetto monaco e fondatore dell'Europa cristiana, quella che seppe nelle sue epoche migliori conciliare preghiera e lavoro, e dunque attitudine alla contemplazione e progresso tecnologico – sta ad indicare quanto la "rifondazione spirituale" del vecchio continente stia a cuore al nuovo Pontefice. È possibile che anche questa possa essere, alla fine, una delle priorità del successore-continuatore di Giovanni Paolo II: non per circoscrivere il cattolicesimo negli ormai ristretti confini dell'Europa, ma per fare di essa il lievito destinato a fermentare tutte le culture e tutte le civiltà.

5.02.2005

Dio, la ricerca e la fede nel pensiero di Joseph Ratzinger

di + Bruno Forte
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto



È lo stesso Joseph Ratzinger a offrirci la chiave di lettura della sua opera di pensatore della fede e di uomo di dialogo con i cercatori di Dio quando afferma che lo scopo della Sua vita intera è stato quello di dedicarsi «al servizio della parola di Dio che cerca e si procura ascolti tra le mille parole degli uomini» (Prefazione a A. Nichols, Joseph Ratzinger, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 6). Chi cerca e si procura ascolti non ha nulla del presuntuoso possessore della Verità che voglia imporla agli altri a colpi di clava: Ratzinger pone e accoglie domande vere e non offre mai risposte che non siano rigorosamente argomentate. Ne è prova significativa tra tante il dialogo svoltosi il 19 gennaio 2004 a Monaco di Baviera fra lui e il filosofo Jürgen Habermas su I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale (di cui è imminente l’uscita in volume per la Morcelliana di Brescia). Se Habermas è considerato come il più influente filosofo tedesco del momento, il cui ruolo appare persino quello di dare voce alla coscienza morale nella cultura politica del Paese, Ratzinger non è solo il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede divenuto oggi Papa Benedetto XVI, ma anche il fine intellettuale che - ad esempio - nel 1992 è stato accolto nell’«Académie des Sciences Morales et Politiques» dell’«Institut de France», lui, uomo di Chiesa tedesco.
In realtà, Joseph Ratzinger intende l’opera del pensiero e della ricerca come semplice e puro servizio alla Verità: ecco perché il vero idolo negativo è da lui identificato nel relativismo, in quella posizione cioè che riconoscendo il pluralismo delle verità – più o meno legate all’arbitrio soggettivo – esclude l’idea della Verità da servire e da amare, sostituendola con l’unica certezza che tutto sia relativo. A questo forte senso della Verità Ratzinger giunge non in un'avventura individuale senza radici profonde, ma attingendo alla comunione della Chiesa di Dio come vero “uomo ecclesiale”, nel contesto della grande tradizione del pensiero occidentale: dagli studi sull’amatissimo Agostino e su Bonaventura alla frequentazione dei maestri dell'eredità di Monaco (Sailer, Görres, Bardenhewer, Grabmann e Schmaus, per fare solo qualche nome), al dialogo con la sapienza greca, soprattutto platonica, e con la filosofia moderna e contemporanea, il futuro Benedetto XVI si nutre di uno straordinario patrimonio di pensiero, che attualizza e rielabora al fine di dire in modo nuovo il messaggio antico della rivelazione cristiana per l'inquieta cultura del nostro tempo, segnato da cambiamenti tanto rapidi, quanto profondi.
Si può dire veramente che la sua teologia e la sua filosofia più che aristocratico amore della sapienza, sono espressione di un’umile e convinta sapienza dell’amore, da offrire con generosità agli altri, in ascolto e in dialogo con tutti. Nel presentare il pensiero del futuro Benedetto XVI sul tema “Dio: la ricerca e la fede”, cercherò allora di rispondere a quattro domande, che ci riguardano tutti, credenti e non credenti pensosi: che significa credere? Chi è il Dio in cui crede chi crede? Che rapporto c’è fra l’umano e il divino riconosciuto nella fede? Quale è il luogo vivo dell’incontro, ovvero: dove “abita” Dio? Il riferimento al dialogo di Ratzinger con Habermas servirà a mostrare il profondo carattere dialogico delle risposte date dal futuro Benedetto XVI, sempre attente alle ragioni dell’altro.


1. Che significa credere?

Nell'analisi di Ratzinger credere «significa dare il proprio assenso a quel “senso” che non siamo in grado di fabbricarci da noi, ma solo di ricevere come un dono, sicché ci basta accoglierlo ed abbandonarci ad esso» (Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1969, 41). La fede è l’accettazione consapevole e libera del “senso donato” e nasce dall'incontro fra il movimento di autotrascendenza dell'uomo e l’offerta assolutamente gratuita e indeducibile della grazia di Dio. Quest’incontro è tutt’altro che scontato: esso va anzi vissuto in tutta la sua dimensione agonica, segnata dall'esperienza della reale alterità dell'Altro: «Il “Credo” cristiano riprende con le sue prime parole il “Credo” d'Israele, accollandosi però al contempo anche la lotta d'Israele, la sua esperienza della fede e la sua battaglia per Dio, che diventano così una dimensione interiore della fede cristiana, la quale non esisterebbe affatto senza tale lotta» (73).
A questa visione della fede Habermas si mostra quanto mai interessato: “La ragione che riflette sul suo fondamento più profondo – afferma nel dialogo citato - scopre la sua origine in un Altro; e la potenza fatale di questo deve essere riconosciuta dalla ragione, se essa non vuole perdersi nel vicolo cieco di un ibrido divenire preda di se stessa… Pur senza un’iniziale intenzione teologica, la ragione che scopre i suoi stessi limiti trapassa verso un Altro”. La prospettiva di un apprendimento complementare tra religione e ragione è dunque condivisa da entrambi. La visione che Ratzinger ha della razionalità, della sua forza e dei suoi progressi, è senza dubbio più problematica di quella espressa da Habermas. Da teologo egli non manca di rilevare come accanto alle patologie della religione – di cui possono essere esempio i movimenti religiosi che alimentano la violenza e il terrorismo – vi sono anche patologie della ragione, come quelle che hanno portato alla costruzione e all’uso di terribili armi di distruzione. Ma questo rilievo non esime la fede dal dovere di un dialogo purificatore con la ragione e Ratzinger non esita a dichiarare che esiste una «necessaria correlazione tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una con l’altra». La fede – lungi dall’essere sacrificio dell’intelligenza – ne è insomma straordinario stimolo e alimento. La ragione che voglia dare ragione di quanto esiste, esercitata fino in fondo, si apre allo stupore davanti al mistero, dove abita l’Altro, che chi crede riconosce come il Dio al tempo stesso sovrano e vicino…


2. Chi è il Dio in cui crede chi crede?

L'unico Dio cui si affida chi crede è il mistero del mondo, il senso ultimo della vita e della storia, la ragione inconfutabile per diffidare della miopia di tutto ciò che è penultimo, il fondamento al tempo stesso della vigilanza critica nei confronti di tutto ciò che è meno di Lui e della speranza profetica nei riguardi del veniente e del nuovo collegati alla Sua promessa. «Chiamando Dio “Padre” e al contempo “Sovrano dell'universo”, il Credo ha abbinato un concetto familiare ed uno di portata cosmica, facendoli servire alla descrizione dell'unico Dio. In tal modo esso mette bene in risalto quali siano le note più salienti che nella fede cristiana caratterizzano il ritratto di Dio: la tensione fra potenza assoluta ed amore assoluto, fra incommensurabile distanza e strettissima vicinanza» (109). È proprio il paradosso della compresenza di queste due caratteristiche che aiuta a comprendere in che senso il Dio della fede sia il Dio vivente: non un morto oggetto, su cui esercitare il gioco dell’intelligenza, ma il Soggetto vivo e operante, cui corrispondere con la consapevolezza e la libertà dell’accettazione di un’alleanza d’amore. Non un Dio concorrente dell’uomo, ma il Dio umano, la cui gloria è l’uomo vivente!
Di questo Dio le tesi di Habermas pretendono di offrire una sorta di traduzione secolare, che – seppur contestabile nell’ottica della fede vissuta – mostra la singolare corrispondenza che c’è fra ricerca filosofica di Dio e fede cristiana in Lui: “La compenetrazione reciproca di cristianesimo e metafisica greca non ha prodotto solo la forma spirituale della dogmatica teologica e una, non sempre benefica, ellenizzazione del cristianesimo. Tale compenetrazione ha favorito anche, dall’altro lato, l’appropriazione di contenuti genuinamente cristiani, da parte della filosofia. Questo lavoro di appropriazione si è dispiegato in connessioni concettuali dalla forte carica normativa, connessioni come responsabilità, autonomia e giustificazione, come storia e ricordo, nuovo inizio, innovazione e ritorno, come emancipazione e compimento, come alienazione, interiorizzazione e incarnazione, individualità e comunità. Questo lavoro ha certo trasformato il senso religioso originario, ma non l’ha deflazionato e devitalizzato, rendendolo vuoto. Tradurre l’idea di un uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio nell’idea di un’eguale dignità di tutti gli uomini, da rispettarsi incondizionatamente, costituisce un esempio di una tale traduzione salvante. Essa impiega e dischiude il contenuto dei concetti biblici al di là dei confini di una comunità religiosa, fino al pubblico generale di coloro che hanno altre fedi o che non credono”. Anche qui, la corrispondenza con le tesi di Ratzinger si unisce alla ulteriore problematicità che questi avanza: la semplice “traduzione” dei concetti teologici in categorie mondane non basta. Il rapporto fra il divino e l’umano è ben più complesso…


3. Quale rapporto fra l’umano e il divino?

Nell'incontro della fede l’umano e il divino si rapportano in maniera dialettica, viva e vitale: Ratzinger ha approfondito questo rapporto, mostrando come l'esperienza ecclesiale della grazia venga a costituire il vero compimento della ricerca del cuore umano, e come ciò avvenga non senza un prezzo pari alla dignità della creatura. La «tesi dualista», che oppone natura e grazia secondo la dottrina della «natura pura» e la teoria dei «due ordini», naturale e soprannaturale, aveva finito col mantenere l'azione della grazia in un marcato estrinsecismo: alla mera non imputazione del peccato non veniva a corrispondere alcuna modifica della dinamica spirituale e naturale dell'uomo. Le «dottrine dell'immanenza» - legate ai progetti emancipatori della modernità - avevano colto unicamente nelle capacità intrinseche dell'umano il potenziale da esprimere ed attuare nel progresso della vita personale e sociale.
Fra questi opposti estremismi, la tradizione credente ha cercato un equilibrio, che Ratzinger vede bene espresso nella formula gratia praesupponit naturam (o anche gratia non destruit, sed supponit et perficit naturam), da lui studiata in un contributo ispirato al suo maestro Gottlieb Söhngen: «Il naturalismo che rifiuta la grazia nella natura porta allo stesso risultato del soprannaturalismo, che combatte la natura e, travisando la creazione, rende priva di senso anche la grazia» (J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 138). In primo luogo, se la grazia presuppone la natura, l'interlocutore umano del patto non è annientato, ma entra nel mistero dell'alleanza con Dio in tutta la consistenza e la dignità del suo essere. L'uomo sta davanti all'Eterno come protagonista, non come semplice recettore passivo dell'opera divina in lui. Nella densità del praesupponit è compreso allora anche lo spazio della libera azione della creatura, che può aprirsi con consapevolezza e responsabilità all'accoglienza del dono soprannaturale, o può chiudersi in se stessa, in una presunta autosufficienza davanti al Mistero. Ecco perché nell'assioma occorre correttamente leggere un movimento dialettico. La grazia compie la natura anzitutto in quanto la nega nelle sue chiusure: essa giunge all'uomo «soltanto violando il duro involucro dell'auto-esaltazione, che copre in lui la magnificenza di Dio. E questo vuol dire che non esiste grazia senza la croce» (152). L'incontro con Dio inizia sempre con la chiamata al cambiamento radicale del cuore e della vita.
Insieme con questa negazione dell'antropologia in quanto chiusa all'Eterno, la grazia ne comporta però anche la piena affermazione: se l'uomo è desiderio di Dio, l'offerta dell'autocomunicazione divina lo realizza al più alto livello dell'aspirazione del suo essere. Nel praesupponit sono comprese la gioia e la bellezza della vita divina partecipata alla creatura, la pienezza di senso che essa soltanto è capace di dare alla vita dell'uomo sulla terra: «Solo l'umanità del secondo Adamo è la vera umanità, solo l'umanità che è passata attraverso la croce mette in luce il vero uomo» (153). La dialettica della negazione e dell'affermazione, tuttavia, non rende ancora la pienezza di senso dell'assioma: il compimento del desiderio umano da parte del Dio vivente è il suo superamento a un livello che il desiderio stesso non avrebbe mai potuto raggiungere. «La vera umanità dell'uomo è l'umanità di Dio, la grazia, che riempie la natura» (154). È questa peraltro anche la conclusione che Ratzinger trae al termine del suo dialogo con Habermas: “È importante per le due grandi componenti della cultura occidentale farsi coinvolgere in una correlazione polifonica, in cui aprano se stesse alla complementarità essenziale tra ragione e fede, cosicché possa crescere un processo di purificazione universale, in cui in ultima istanza i valori e le norme essenziali in qualche modo conosciuti o presagiti da tutti gli uomini possano conseguire nuova forza d’illuminazione, cosicché possa ritornare ad avere forza operante quanto tiene unito il mondo”.


4. Quale è il luogo vivo dell’incontro, il “circolo ermeneutico” dell’assenso credente?

È in questa prospettiva che la Chiesa - terreno dell'avvento libero e gratuito dell'amore eterno - può essere colta nel suo profondo significato di luogo del rapporto sempre vivo e fecondo fra il Dio vivente e la nostalgia del cuore umano assetata di Lui: Ratzinger lo fa esaminando un altro asserto della tradizione teologica, non meno ricco di sorprendenti illuminazioni, l'assioma «extra Ecclesiam nulla salus» (J. Ratzinger, Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, in Id., Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, 365-389). Esso non è comprensibile all'infuori dell'orizzonte unitario e totalizzante del simbolismo patristico: «La frase è sviluppata sullo sfondo dell'immagine del mondo propria dell'antichità, che vi si è anche intessuta e ne è parte. In forza di questa immagine del mondo, al termine del tempo patristico il mondo era ritenuto come prevalentemente cristiano. L'impressione di ciò che si sapeva del mondo era che chiunque volesse essere cristiano, lo poteva anche essere e lo era. Solo più un irrigidimento colpevole teneva l'uomo lontano dalla Chiesa» (373). In quanto ambito della presenza e dell'offerta del Logos universale, la Chiesa appare ai Padri come il luogo proprio in cui trova espressione l'accoglienza salvifica dello stesso Logos, e la separazione da essa come un allontanarsi dalla porta, che sola conduce pienamente alla vita.
Certo, la Chiesa resta paradosso, che vela e rivela: perciò, essa rinvia a Colui da cui viene e verso cui tende, e non può mai presumere di essere un assoluto, che si sostituisca all'attrazione misteriosa di Dio ed alla libertà delle Sue vie. Nella concezione della Chiesa come sacramento di salvezza universale coesistono allora «sia l'ampiezza illimitata della salvezza (universalismo come speranza), sia l'indispensabilità dell'evento Cristo (universalismo come pretesa)» (380). Il paradosso ecclesiale rimanda così inevitabilmente al mistero del Regno: proprio così esso rispetta ogni libertà. E perciò non sorprende che il dramma del male e del peccato abiti anche nella Chiesa: Ratzinger lo sa bene e vi riflette con coraggio. Santa per la chiamata e la fedeltà di Dio, la Chiesa è non di meno peccatrice nelle colpe dei suoi figli. Essa «vive sempre ancora del perdono, che la trasforma da prostituta in sposa; la Chiesa di tutte le generazioni è Chiesa per grazia, che Dio si trae fuori sempre di nuovo da Babilonia, dove gli uomini si trovano a vivere secondo le loro forze... Proprio l'assolutezza della grazia include l'insufficienza e la criticabilità degli uomini, ai quali è rapportata. Ma questi uomini... sono la Chiesa, una Chiesa che non si può semplicemente staccare da loro, come se fosse qualcosa di proprio, di puramente oggettivo dietro agli uomini; essa vive invece negli uomini, anche se li trascende per quel mistero della benevolenza divina, che essa comunica loro. In questo senso, la Chiesa santa resta sempre in questo tempo anche Chiesa peccatrice» (Il nuovo popolo di Dio, o.c., 278s).
A partire da questa coesistenza di santità e di peccato, si comprende in che senso la vita stessa della Chiesa esiga il suo incessante rinnovamento: per risplendere come Israele escatologico, il popolo di Dio deve rendere visibile e attraente la sua santità attraverso un sempre nuovo ritorno al Signore e alla sua signoria assoluta in ogni campo del suo esistere storico. Il criterio della vera riforma e dell'autentico rinnovamento è la fedeltà alla volontà di Dio riguardo al suo popolo: il rinnovamento non si fa, allora, scegliendo forme di rottura, che privilegino contro la massa il piccolo gruppo degli eletti, ma è ecclesiale nel suo fine e nei suoi protagonisti. La riforma si fa insieme con tutti: la Chiesa si rinnova veramente, se si rinnova nella comunione della sua fede, in uno sforzo autenticamente «cattolico» di conversione, che non escluda pregiudizialmente nessuno, e non punti a modelli irraggiungibili o impossibili per la maggior parte dei fedeli. In questo senso il rinnovamento «non consiste in una quantità di esercizi ed istituzioni esteriori, ma nell'appartenere unicamente ed interamente alla fraternità di Gesù Cristo... Rinnovamento è semplificazione, non nel senso di un decurtare o di uno sminuire, ma nel senso del divenire semplici, del rivolgersi a quella semplicità vera che è il mistero di tutto ciò che vive... e che in fondo è un'eco della semplicità del Dio uno» (Il nuovo popolo di Dio, 301. 303).
La fede vissuta in continuo rinnovamento nella Chiesa diventa così la via in cui si prepara e si anticipa il compimento dell'“éschaton”: «La partecipazione al martirio di Cristo è quel modo di morire che è la fede e l'amore, per cui accetto la mia vita e la rendo accetta a Dio, il quale, solo in quanto Trinità, può essere amore, e solo in quanto amore rende il mondo sopportabile» (cf. J. Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1985, 115). A tutti è data la possibilità di entrare nella tensione fra il già e il non ancora di cui la Chiesa è sacramento: per i credenti, incorporati al Corpo ecclesiale di Cristo, questa condizione sarà comunque segnata dal conforto della “comunione dei santi”, che, radicata nella vita delle relazioni divine, consente la comunicazione interpersonale nella fede, nella speranza e nella carità, espressa e nutrita dalla preghiera, nel tempo e per l’eternità. In questo senso, veramente, “chi crede non è mai solo, nella vita, come nella morte” (Omelia del 24 Aprile 2005, Inaugurazione del Pontificato). Questo il teologo Joseph Ratzinger ha mostrato con l'intera Sua vita ed opera. Di questo la Chiesa tutta, e la teologia in essa, devono essergli riconoscenti. Possa il Signore che lo ha chiamato ora a seguirlo nella sede di Pietro sostenere Benedetto XVI nel realizzare per la Chiesa degli inizi del Terzo Millennio le prospettive stupende di fede, di amore e di speranza che gli ha concesso di contemplare e di vivere, di far contemplare e di far vivere nel suo servizio di teologo veramente “cattolico”.

5.01.2005

Ghigliottina dello Spirito

di Davide Rondoni

All’indomani dell’inizio solenne del Pontificato, Benedetto XVI ha ricordato di fronte ai suoi connazionali rimasti a Roma alcuni sentimenti che lo animavano durante il conclave da cui è uscito eletto. A un certo punto ha raccontato: «Lo sviluppo delle votazioni faceva capire che lentamente la "ghigliottina" si avvicinava e mirava a me». La ghigliottina è un colpo secco. Non so se qualcuno l’aveva mai usata come metafora per indicare un’azione dello Spirito Santo. Si era parlato di colombe, di lingue di fuoco, di venti e venticelli. Di ghigliottina non mi pare. Eppure il Papa – questo che non è un poeta come il predecessore – ha subito coniato un’immagine originale, dato il contesto a cui si riferisce. C’è dell’ironia, certo. Ma Benedetto XVI non è tipo da parlare a vanvera. Se dice ghigliottina indica qualcosa di estremo. Qualcosa da comprendere meglio. Proviamoci. L’esperienza di essere a un punto della propria vita irrevocabile l’abbiamo fatta tutti. Trovarci a un limite, superato il quale le cose cambiano. Sono i momenti del rischio, e della solitudine. Vi aveva alluso lo stesso Papa, qualche giorno fa, durante l’omelia in Piazza san Pietro, evocando l’enorme solitudine che sta alle sue spalle, ma aggiungendo che non si tratta di vera solitudine. Perché ci sono le schiere dei santi, perché c’è l’amicizia della Chiesa. Il corpo di un uomo solo è diventato un corpo condiviso. Niente è come quell’amicizia, niente unisce come quell’unità, nemmeno il sesso.

La ghigliottina dello Spirito Santo ha separato con un colpo netto la vita di Joseph Ratzinger da quella, nuova e con nuovo nome, di Benedetto XVI. Anche Giovanni Paolo I aveva usato parole simili, riferendo del suo tremore, al momento di accettare. Ma la ghigliottina è un taglio secco, segna una differenza. Dunque che razza di ghigliottina è quella di cui parla il Papa? È la fede.
Come lui stesso ha infatti ricordato, in quel momento di tensione suprema, ha accettato l’invito dei signori cardinali anche perché un suo collega gli aveva mandato un bigliettino ricordandogli una certa cosa. Ovvero che Ratzinger medesimo aveva parlato della fede di Wojtyla, al grande funerale, contrassegnata dalla parola «seguimi». La ghigliottina è quell’invito. Quel commovente, eccezionale invito. Non si ha fede perché si è bravi. Si ha fede perché si segue un incontro che cambia la percezione della vita e il giudizio su di essa. Molti pensano che la fede sia una specie di test di capacità morali. Se raggiungi un certo punteggio hai fede. No, la fede è un evento, una differenza che entra nella vita innanzitutto come coscienza che non si è più soli e persi. Che non si è inutili. Nessuno. Non si è più persone qualunque, con un destino di creature finite. Si è figli desiderati. La fede è riconoscere che Dio ti da del tu, e dice: il tuo cuore, la tua persona intera sono fatti d’eterno. La fede è un colpo che separa dalla presunzione di salvarsi da soli. Di essere padroni di sé. Infatti, non i farisei, non i bravi, seguivano Gesù, ma coloro che sapevano d’esser poveretti. Poveri di vita, di significato adeguato al vivere.

Il Papa è colui che segue per primo. Intorno alla Chiesa se ne sentono di tutti i colori. E intorno a quel che dovrebbe fare il nuovo Papa, pure. Come se avesse anzitutto i problemi di un grande gestore contabile, di un condottiero di uomini puri e forti. Invece si tratta della fede. Della sua e del suo popolo. Lo ha detto più volte. Si tratta di incontrare ogni giorno una presenza eccezionale e di seguirla. In quanti intorno a noi desiderano quel colpo di ghigliottina, questa scelta senza condizioni che Dio compie? Nella Chiesa che il grande "ghigliottinato" ora guida con il suo sorriso serio e lieto, non si indugi su questioni secondarie. Non si inviti a «fare i bravi». Non ci si vergogni di Cristo. Si mostri, cioè, cosa significa lasciarsi prendere, e seguire Colui che solo dà la vita desiderata.