benedettosedicesimo

4.21.2005

Severo con tutti, a cominciare dalla Chiesa

di Fabrizio Rondolino

Come e più di Paolo VI, Benedetto XVI è prima di tutto un grande intellettuale: non soltanto dunque un uomo di dottrina o il custode dell'ortodossia, come vuole la semplificazione mediatica, né soltanto un professore, un teologo, un grande erudito: ma, soprattutto, un uomo abituato a lavorare con i concetti, ad esercitare la fatica della ragione, ad interrogarsi con umiltà e con orgoglio sul senso della tradizione dell'Occidente greco ed ebraico-cristiano. La rigidità mostrata sempre da Joseph Ratzinger in materia di fede, di dottrina e di dogmatica, e che un enorme peso ha avuto nel pontificato di Giovanni Paolo II, nasce da un profondo pessimismo che, a sua volta, è frutto di una riflessione disincantata quanto lucida sul destino della modernità e sulla collocazione che, all'interno del Moderno, ha la questione della Verità - o, come direbbero i filosofi, la questione del fondamento. La polemica contro la «dittatura del relativismo», centrale nell'omelia pronunciata appena due giorni fa durante la messa solenne «Pro eligendo Pontifice», attraversa tutto il pensiero (e l'azione) di Ratzinger, perché ne delinea il nucleo fondamentale, e insieme il punto di crisi.

Le «meditazioni penitenziali» scritte per la Via Crucis della scorsa Pasqua suscitarono, giustamente, clamore: perché vi era poco di wojtyliano e molto di ratzingeriano; o meglio, perché contenevano non un bilancio del papato che si andava spegnendo, ma un impegnativo manifesto per il papato a venire. Se Giovanni Paolo II aveva più volte chiesto perdono al mondo per gli errori dei figli della Chiesa nella storia, Ratzinger invece chiede perdono non per le colpe del passato, ma per quelle del presente. E non chiede perdono al mondo, ma a Dio: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa».

La colpa fondamentale indicata dall'allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede è quella di una cristianità che, «stancatasi della fede, ha abbandonato il Signore», proprio come i discepoli che tradirono e abbandonarono Gesù sulla croce. Ma a questa colpa se ne aggiungono molte altre, particolari ma non meno gravi: la «sporcizia» di tanti sacerdoti, le «parole vuote» e la «poca fede di tante teorie» teologiche, l'abuso del sacramento dell'eucaristia, le messe in cui «celebriamo soltanto noi stessi» invece che Cristo, l'abbandono della confessione sacramentale e così via.

Per questo, nel suo ultimo «discorso programmatico» prima del conclave, l'omelia alla messa «Pro eligendo Pontifice», Ratzinger invoca «un pastore che non ci lasci in balia delle onde». «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni - dice -, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero. La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all'individualismo radicale, all'ateismo». E' contro la «dittatura del relativismo» che la fede deve far valere le proprie ragioni: o forse, se è concesso un gioco di parole, far valere il proprio essere ragione in senso forte, filosofico. La fede di cui parla Ratzinger si colloca storicamente (e culturalmente) in un mondo che ha vissuto i totalitarismi, che ha letto Nietzsche e Freud, che è transitato per la grande secolarizzazione fino ad approdare al disincanto del postmoderno. Non è facile trovare un’adeguata dimensione per la fede: che, infatti, sempre più spesso sembra diventare spettacolo, spiritualità indistinta, «new age». Ecco: se c'è stato qualcosa di eccessivo nella spettacolarizzazione mediatica che ha accompagnato e segnato il pontificato di Giovanni Paolo II, ciò lo si deve più al carisma personale di Wojtyla che alla dottrina di Ratzinger: la cui severità è plasmata da un pessimismo profondo, dalla consapevolezza di essere «minoranza» e «opposizione» - sempre.

Cinque anni or sono, in un'intervista alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», così rifletteva il futuro Benedetto XVI: «C'è qualcosa di vero nel concetto postmoderno di “ragione debole”. Anche il Concilio Vaticano II, che ha elaborato un concetto di ragione molto forte, ha aggiunto, allo stesso tempo, che nei contesti contemporanei la ragione è così indebolita da avere bisogno di aiuto, poiché da sola non ce la fa a riconoscere la verità. Ma è qualcosa di diverso se si dice (...) che nell'uomo non c'è nessun organo atto alla conoscenza della verità. Ed è proprio quest'ultima posizione che viene sostenuta in molte versioni del concetto postmoderno di “ragione debole”. (...) In questa prospettiva la fede sarebbe una risposta che non può seguire alla ragione, ma che illumina soggettivamente determinati uomini e che soddisfa le loro soggettive esigenze religiose. Se la ragione non è una sfera aperta alla fede, che è poi dalla fede raccolta e portata avanti, se essa stessa non è un luogo che può entrare in stretto rapporto con la fede, allora la fede rimane qualcosa di irragionevole, viene ridotta fideisticamente, appartiene quindi all'ambito dell'abitudine e non all'ambito della verità». Ratzinger non intende rinunciare alla verità, nel senso evangelico della testimonianza di fede, naturalmente, ma anche in quello «greco», filosofico, di ricerca del fondamento; è convinto che l'indifferenza dei valori e il relativismo assoluto del mondo contemporaneo siano di fatto figli della superstizione e della successiva dissoluzione della ragione illuministica, presuntuosamente sicura di poter tutto comprendere e tutto spiegare; e tuttavia difende vigorosamente la ragione come «organo atto alla ricerca della verità», come luogo in cui la fede trova radice e motivazione.

Per comprendere appieno il pensiero di Ratzinger, nella sua impostazione culturale agostiniana e nella sua traduzione «politica» di pastore della Chiesa, è utile rileggere la sua riflessione sul Concilio Vaticano II nel libro-intervista di Vittorio Messori («Rapporto sulla fede», 1985): «I Papi e i Padri conciliari si aspettavano una nuova unità cattolica e si è invece andati incontro a un dissenso che - per usare le parole di Paolo VI - è sembrato passare dall'autocritica all'autodistruzione. Ci si aspettava un nuovo entusiasmo e si è invece finiti troppo spesso nella noia e nello scoraggiamento. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un richiamo a un presunto “spirito del Concilio”». Affermazioni che suscitarono grandi polemiche, dentro e fuori la Chiesa, e che valsero a Ratzinger una volta per tutte l'epiteto di «reazionario». E tuttavia proprio in quel testo Ratzinger si proclamava sì «reazionario», ma nel senso di chi si oppone alla degradazione e alla dissoluzione dei valori e delle identità. Il futuro Benedetto XVI, infatti, denunciava vent'anni fa la presenza all'interno della Chiesa di «un'enfasi sulla modernità che ha scambiato il progresso tecnico odierno con un progresso autentico, integrale» e, all'esterno, «l'affermazione in Occidente del ceto medio-superiore, della nuova “borghesia del terziario” con la sua ideologia liberal-radicale di stampo individualistico, razionalistico, edonistico».

Cedere alle sirene delle leopardiane «magnifiche sorti e progressive», adorare la tecnica senza interrogarsi sui valori di cui è silenziosa portatrice, concepire la libertà come libertà assoluta «e non come libertà “per”, “da”, “verso” qualcuno o qualcosa» («Libertà e verità», 1996), è per Ratzinger il cuore del nichilismo contemporaneo, e insieme la ragione dell'opposizione radicale della Chiesa a questa modernità. «Voglio dire inoltre - specificava Ratzinger a Messori - che il dialogo con il mondo è possibile solo sulla base di una identità chiara: che ci si può, ci si deve “aprire”, ma solo quando si è acquisita la propria identità e si ha quindi qualcosa da dire. L'identità ferma è condizione dell'apertura». E poi, icastico: «Non sono i cristiani che si oppongono al mondo. È il mondo che si oppone a loro, quando è proclamata la verità su Dio, su Cristo, sull'uomo. Il mondo si rivolta quando il peccato e la grazia sono chiamati con il loro nome. E' tempo che il cristiano ritrovi la consapevolezza di appartenere a una minoranza e di essere spesso in contrasto con ciò che è ovvio, logico, naturale per quello che il Nuovo Testamento chiama - e non certo in senso positivo - “lo spirito mondano”». L'ultimo, estremo pensiero forte dell'Occidente - la terra del tramonto - forse non per caso abita oggi un teologo tedesco eletto al soglio di Pietro.