benedettosedicesimo

4.22.2005

Sarà un Papa di sorprese

di Marco Roncalli

Alla fine, a differenza di molti esiti precedenti, non è stato eletto il cardinale ignoto quello a cui nessuno aveva pensato – ma colui che nei dibattiti del preconclave aveva attirato ogni attenzione: Joseph Ratzinger, il decano del collegio cardinalizio promosso al ruolo di papabile – e di papa – dopo essere stato ritenuto a lungo solo "un grande elettore" o il "deus ex machina del conclave". Il quorum necessario è stato raggiunto in fretta proprio da colui che sino all’ultimo – estraneo ad ogni gioco – mai aveva manifestato la più pallida auto-candidatura. Anzi, che poco prima dell’ingresso nella Cappella Sistina, durante la "Missa pro eligendo romano pontifice", aveva pronunciato un’omelia chiarissima, sintesi del suo lavoro accanto a Karol Wojtyla, più adatta però a perdere che a guadagnare consensi tra gli incerti. Più che un’omelia, rileggendola, un’agenda di lavoro inequivocabile. Ad essere sinceri, anche tra vaticanisti, storici, addetti ai lavori, la sua designazione, era sempre stata considerata più simbolica che reale. Però è diventata realtà. Ratzinger, settantotto anni appena compiuti, dal 1981 prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, con il nome di Benedetto XVI, è il nuovo pontefice: eletto nel primo giorno pieno del Conclave. È certo che, con questa scelta, i cardinali hanno caricato le loro attese circa il futuro della Chiesa sul mite porporato tedesco (ma anche "romano"), ritenendolo l’autore della diagnosi più realistica dello "status quo", ma anche del più solido ed articolato programma per il pontificato che ora inizia nel segno della continuità con il precedente, in una Chiesa sempre più destinata non tanto a sussurrare alla coscienze, ma ad agire come forza visibile, esposta con fierezza militante al turbinìo delle domande dal mondo contemporaneo. Con Ratzinger si apre un pontificato che già qualcuno connota "di transizione", eppure potrebbe riservare non poche sorprese. Custode tenace dell’ortodossia, ma anche movimentista sui generis, teologo insigne ma anche profondo conoscitore delle pieghe degli uomini, Ratzinger non ha mai negato la necessità di sburocratizzare la Chiesa, di auspicare autentica collegialità, di favorire un cauto decentramento, pur insistendo sempre sull’essenzialità della fede e sull’assoluta corrispondenza tra i valori professati e i comportamenti morali. Le sorprese magari potranno non venire dalla visione ecclesiologica ratzingeriana (ben palesata anche a Subiaco, il 1 aprile, nella sua conferenza prima della morte di Wojtyla), con le dure critiche a quanti «riducono il nocciolo del messaggio di Gesù, il regno di Dio, alle parole d’ordine del moralismo politico», ma il nuovo Papa non ha mai dimenticato sia Pietro che ammoniva ad essere sempre «pronti a dare ragione della nostra speranza», sia Paolo pronto a parlarci di «un amore eccedente la ragione». Europeo, il neo-pontefice resta l’intellettuale che vede negli uomini e nelle ideologie che fanno a meno della fede il primo problema della Chiesa del terzo millennio, problema allarmante in un’Europa incatenata da una cultura che «costituisce la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell’intera umanità», come ha detto nel «manifesto» Subiaco. Tuttavia, come già è stato dimostrato in passato, anche i papi di "transizione" (tale fu indicato per esempio il conservatore Roncalli che indisse subito il Vaticano II) possono compiere gesti inimmaginabili .E non è detto che – nel suo nuovo ruolo – questo "dono dello Spirito Santo" possa osservare in modo nuovo i cattolici marginali e critici, o approfondirne le istanze più diffuse. Conservatore dunque, anzi nuovo-conservatore con idee limpide quanto ai contenuti di dottrina e morale, missione ed evangelizzazione, preoccupato sì delle evoluzioni ecumeniche e interreligiose, ma in primis dei conflitti culturali tra le proposte della Chiesa e quelle antagoniste caratterizzanti le culture d’Occidente (e d’Oriente) di oggi, intellettuale fine capace di dialogare con correnti di pensiero laiche vicine e lontane (Fukuyama, Habermas, Spengler…), questo figlio genuino del popolo bavarese, tanto parco e sobrio nello stile di vita quanto schivo nelle esibizioni, ha del resto affidato a migliaia e migliaia di pagine il suo pensiero, nella sua genesi e nella sua evoluzione, nei suoi riferimenti e nelle sue intuizioni. E qui non ci riferiamo solo a robusti tomi di teologia, di cristologia, ecc. editi dalla fine degli anni Sessanta ad oggi soprattutto dalla Queriniana, San Paolo, Cantagalli, Jaca Book, Morcelliana, ecc. (quasi una cinquantina almeno i titoli suoi in libreria a documentare un intenso percorso di studi per affermare Gesù Cristo), ma anche ad interessanti libri-intervista di genere divulgativo (come non ricordare il Rapporto sulla fede con Vittorio Messori nel 1985 e Il sale della terra con Peter Seewald nel 1997) e persino ad una parziale autobiografia (La mia vita, Ricordi 1927-1997). Un libro quest’ultimo da rileggere in fretta e dove si percepisce una continua attenzione alla Chiesa, intesa quale organismo vitale all’opera nella storia degli uomini e dei popoli. Come ha scritto l’attuale patriarca di Venezia Scola: «Una peculiare, intrinseca connessione tra rivelazione e storia, sperimentata fin da bambino nella fede della famiglia e della popolare Chiesa di Baviera, costituisce la caratteristica metodologica che fa da filo di Arianna attraverso tutti gli scritti di Joseph Ratzinger, e finisce per caratterizzare, lungo gli anni, il giovane studioso, il professore, il pastore e il prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede. Qui sta, l’origine della continuità e dell’evoluzione del suo pensiero». «Voi dunque, per i Pastori di domani, proponete un nuovo coraggio nell’annuncio della fede?», aveva chiesto quattro anni fa l’abbé Claude Barthe all’allora prefetto della Congregazione per la dottrina. E Ratzinger aveva risposto: «Assolutamente. Con la certezza che, se il Signore è con noi, potremo affrontare i problemi del nuovo millennio. Per quanto riguarda candidature e sondaggi, trovo tutto questo alquanto ridicolo: noi abbiamo un Papa, ed è il Signore che decide in tutto del quando e del come. È vero che essere pastore oggi nella Chiesa esige un grande coraggio; ma anche con la nostra debolezza – io sono un uomo debole – possiamo ugualmente accettare il rischio di fare il nostro dovere di pastori, perché è il Signore che agisce. Egli ha detto ai suoi Apostoli che nell’ora del confronto, non avrebbero dovuto pensare con inquietudine a come difendersi e a cosa dire, poiché lo Spirito avrebbe loro insegnato cosa dire». E aggiungeva: «Questa è per me una cosa molto reale. Anche con la mia poca forza, e direi proprio a causa di essa, il Signore potrà fare in me ciò che vorrà. Nella Scrittura vediamo sempre svilupparsi questa struttura: il Signore sceglie, per agire, coloro che di per sé non potrebbero fare gran cosa. È in questa fragilità umana che Egli dimostra la propria forza, come dice San Paolo. In questo senso, io credo che un pastore non abbia mai motivo di aver paura, nella misura in cui lascia agire in sé il Signore». Più di prima questo, ora, vale per lui.