benedettosedicesimo

5.25.2005

Una Chiesa che guarda avanti

Numerose sono le sfide che la Chiesa dovrà affrontare mentre essa continua il suo cammino nella storia. La sua universalità le impone di realizzarsi sempre più come Chiesa-comunione, attraverso una maggiore sinergia fra il centro e la periferia. Lo richiede anche un mondo in continuo movimento.



Joseph Ratzinger è il nuovo successore di_Giovanni_Paolo II al soglio pontificio. È stato eletto il pomeriggio del 19 aprile e ha assunto il nome di Benedetto XVI. L’elezione è avvenuta a soli tre giorni di distanza dal suo compleanno: ha compiuto i 78 anni il 16 aprile, essendo nato il 16 aprile 1927 nel piccolo villaggio di Marktl am Inn, nella Baviera, situato nella diocesi di Passau. Erano 482 anni che un tedesco non ascendeva al soglio pontificio.

Sotto la sua guida ora la Chiesa, con rinnovata fiducia e l’assistenza dello Spirito Santo che mai le verrà a mancare, riprende il suo cammino nel tempo e nella storia. Riparte dalla consegna lasciatale da Giovanni Paolo II all’inizio del nuovo millennio, Duc in altum, che altro non è che la traduzione del comando di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15).

“Andate!”... in un mondo che oggi si presenta particolarmente burrascoso. Benedetto XVI ne è pienamente consapevole. Nell’omelia alla messa Pro eligendo Pontifice, celebrata immediatamente prima di entrare in conclave, quando ancora non sapeva che sarebbe stato eletto, ne ha tracciato un quadro impressionante. Ha detto: “Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice san Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf. Ef 4,14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.

Ma, ha proseguito, quasi anticipando le linee del suo pontificato, “noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. è lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. È quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna”” (1Cor 13,1).



UN MONDO

PIENO DI PROBLEMI



Nel suo primo saluto dalla loggia di San Pietro Benedetto XVI si è definito “un semplice umile lavoratore nella vigna del Signore”. Quindi nell’omelia, pronunciata durante la messa celebrata il mattino seguente nella cappella Sistina presenti tutti i cardinali, dopo aver detto che Giovanni Paolo II ci ha lasciato “una Chiesa più coraggiosa, più libera, più giovane; una Chiesa che, secondo il suo insegnamento ed esempio, guarda con serenità al passato e non ha paura del futuro”, riferendosi alla grande eredità del Concilio, e lasciando intravedere una linea che gli farà da guida nel suo pontificato, ha proseguito: “Anch’io, nell’ accingermi al servizio che è proprio del successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’ impegno di attuazione del concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa”.

La vigna che il Signore gli affida è un mondo in cui la popolazione ha superato i 6 miliardi di abitanti, di cui – non dobbiamo dimenticarlo – solo poco più di un miliardo sono i cattolici. Secondo le stime, per il 2025 gli abitanti del globo potrebbero raggiungere gli 8 miliardi. Ma sarà una crescita non uguale dappertutto. Il maggiore incremento si avrà nei paesi poveri del sud e sarà proprio qui dove si concentrerà anche il numero maggiore di giovani, in gran parte senza prospettiva di vita. È un mondo pieno di problemi, diversi da continente a continente, e in gran parte ancor da evangelizzare. Giovanni Paolo II aveva affermato che, all’inizio di questo terzo millennio, la missione è ancora agli inizi. E la missione, l’andare al largo a gettare le reti sarà certamente l’ampio orizzonte che farà da contesto a tutto il nuovo pontificato.



UNA LINEA

DI CONTINUITÀ



Benedetto XVI ha già affermato che egli proseguirà il cammino su una linea di continuità. La Chiesa non cercherà certo né di piacere né di conformarsi al mondo, poiché altrimenti diventerebbe sale che ha perso il sapore, luce posta non in alto, ma sotto il moggio. I suoi punti di riferimento saranno sempre la parola di Dio e il Vangelo.

La prima testimonianza che essa è chiamata a dare, di fronte al mondo tutto rivolto alle realtà terrene, è la proclamazione del primato di Dio su tutte le cose. Come ebbe a dire il grande teologo Karl Rahner con un’intuizione profetica: la Chiesa del ventunesimo secolo o sarà contemplativa o non sarà affatto. L’atteggiamento contemplativo dovrà pervadere tutta la sua vita, la sua opera di evangelizzazione e il suo impegno missionario, al cui centro ci deve essere l’annuncio del progetto di Dio sull’umanità intera al di là di ogni realizzazione umana. È questa l’indicazione lasciatale anche da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Novo millennio ineunte: “Gesù è “ l’uomo nuovo” (Ef 4,24; cf. Col 3,10) che chiama a partecipare alla sua vita divina l’umanità redenta. Nel mistero dell’Incarnazione sono poste le basi per un’antropologia che può andare oltre i propri limiti e le proprie contraddizioni, muovendosi verso Dio stesso, anzi, verso il traguardo della “divinizzazione”, attraverso l’inserimento in Cristo dell’uomo redento, ammesso all’intimità della vita trinitaria. Su questa dimensione soteriologica del mistero dell’Incarnazione i Padri hanno tanto insistito: solo perché il Figlio di Dio è diventato veramente uomo, l’uomo può, in lui e attraverso di lui, divenire realmente figlio di Dio”.

È da qui che la Chiesa deve muoversi. Giustamente il papa rileva: “Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio”. Ciò che invece è importante sarà di tradurre questo programma “in orientamenti pastorali adatti alle condizioni di ciascuna comunità”.

Per riuscirvi è necessario che nella Chiesa si affermi sempre più quella dimensione di comunione, già contenuta nei documenti del concilio e sviluppata successivamente dal magistero e dalla teologia in questi ultimi decenni. Per questa ragione, di fronte alla sua universalità e all’affermarsi delle chiese particolari, uno dei problemi da affrontare è di riuscire a coniugare insieme l’unità nella diversità. In concreto, ciò esige la ricerca di un nuovo equilibrio tra centro e periferia. Come ha affermato recentemente il card. Danneels: “Se finora abbiamo avuto un papa forte, ora è necessario avere anche un episcopato forte”.

Del resto anche Giovanni Paolo II ne era consapevole. È stato proprio lui, infatti, nell’enciclica Ut unum sint, a chiedere di essere aiutato a ripensare il modo di esercitare il primato. Pur rivolgendosi alle chiese cristiane, la richiesta deve essere presa in considerazione anche all’interno della stessa chiesa cattolica.

Sono numerose infatti le voci che in questi ultimi tempi hanno avanzato delle proposte. Una delle più autorevole è stata, per esempio, quella del cardinale Martini. Al sinodo dei vescovi per l’Europa, del 1999, egli aveva detto di “avere un sogno”: di vedere una Chiesa in cui diventi più effettiva la “comunione” attraverso nuove scelte di collegialità in grado di superare quelle attuali. Il sinodo dei vescovi, è stato indubbiamente uno strumento quanto mai importante, ma ormai, nella sua formula attuale, sembra avere in parte esaurito la sua funzione. A parere del cardinale, e di altri che hanno poi raccolto la sua “provocazione”, occorre trovare nuove modalità per esprimere la comunione della Chiesa, ossia dei luoghi per un confronto collegiale e autorevole di tutti i vescovi per cercare di rispondere ai temi nodali emersi in questi ultimi decenni e ai nuovi che si propongono.

Un’altra voce autorevole è quella del cardinale Cormac Murphy-O’Connor, di Westminster (Londra). Lo scorso novembre, durante un incontro con alcuni capi cristiani, disse: “I vescovi governano la Chiesa con e sotto il papa e il papa governa in comunione con i vescovi. Mai Pietro senza gli undici e mai gli undici senza Pietro. Mi sembra che questo rapporto abbia bisogno di una nuova enfasi se si vuole che il governo della Chiesa sia più credibile nel mondo d’oggi. Deve essere reso più concreto di come è in questo momento. C’è un assioma latino che dice: ubi episcopus, ibi ecclesia, dove c’è il vescovo lì c’è la Chiesa. Ciò significa che ogni vescovo deve ascoltare la fede del popolo di Dio nella sua diocesi per essere informato su ciò che lo Spirito di Dio dice in ciascun cristiano e poi, per mandato di Cristo, governare”.

Allargando la prospettiva, il cardinale ha aggiunto: “Oggi noi viviamo in un villaggio globale ed essendo il cristianesimo una religione mondiale bisognerebbe che la collaborazione assumesse un carattere universale. Per esempio, mi piacerebbe vedere il prossimo pontefice, chiunque sia, riunire insieme i capi delle principali denominazioni cristiane e sulla base della nostra comunione – la nostra fede in Cristo, il battesimo, lo Spirito Santo e la parola di Dio – condividere più profondamente e più comunitariamente il desiderio che abbiamo di annunciare e diffondere la parola di Dio”.



ORGANISMI

PIÙ AGILI



Come riuscire ad attuare questa richiesta? Alcuni hanno lanciato l’idea di un nuovo concilio ecumenico. Un’iniziativa del genere è sostenuta con particolare forza soprattutto negli ambienti latinoamericani. Attorno ad essa, come si può costatare anche dal sito internet www.proconcil.org, sono state raccolte varie firme tra cui quelle di un paio di cardinali, di diversi vescovi, sacerdoti, religiosi/ e laici. È probabile che questa iniziativa, con l’inizio del nuovo pontificato, acquisti nuovo slancio. Ma come ha dichiarato recentemente Louis Marie Billé, arcivescovo di Lione e presidente della conferenza episcopale francese, rimettere in piedi un concilio non è cosa tanto facile. Sembrerebbe più agevole, e anche più efficace – data la sua maggiore scioltezza e tenuto presente il rapido cambiamento dei tempi – la proposta suggerita dal card. Martini di convocare di tanto in tanto delle assemblee sinodali veramente rappresentative di tutto l’episcopato per affrontare questioni che sono in agenda nella vita della Chiesa e sciogliere così qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino della Chiesa.



PUNTI NODALI

DA SCIOGLIERE



È comunque certo che solo una Chiesa più comunionale, potrà affrontare in maniera più efficace e appropriata questi punti nodali. Proviamo a indicarne solo alcuni per aree geografiche: la secolarizzazione e scristianizzazione in Europa, con il conseguente calo delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa; il problema dell’annuncio del Vangelo in Asia e il confronto con sue antichissime culture e religioni; i problemi della missione in Africa oltre a quelli endemici della povertà, delle guerre, ecc.; la drammatica aggressione delle sette in America latina...

A tutto questo bisogna aggiungere, l’urgenza di rafforzare il dialogo ecumenico con le altre chiese, che in questo momento ristagna, così pure l’incontro con le altre religioni, in particolare con l’islam, il confronto con la cultura moderna postmoderna, il rapporto tra scienza e fede e tra scienza e i nuovi problemi etici, gli interrogativi posti dal nuovo progresso tecnologico che può portare l’uomo e l’umanità verso una migliore umanizzazione, ma anche alla sua disumanizzazione.

Altri temi importanti sono quelli relativi alla posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le chiese sorelle dell’ortodossia, il rapporto tra democrazia e valori e tra legge civile e leggi morali...

Si potrebbero inoltre aggiungere anche le quattro “sfide” indicate dallo stesso Giovanni Paolo II nel discorso al corpo diplomatico presso la Santa Sede, all’inizio di quest’anno: la sfida della vita, la sfida del pane, la sfida della pace, la sfida della libertà.

Un altro aspetto decisivo riguarda l’inculturazione della fede, su cui si giocherà il futuro della Chiesa in tante parti del mondo. Sappiamo tutti quanto sia delicato. È un problema che non potrà essere risolto solo dal centro, ma avrà bisogno piuttosto del contributo di comunità di fede impegnate e di una leadership locale che meglio di ogni altro conosce la storia e la cultura del proprio popolo. In altre parole, c’è bisogno di una Chiesa più decentralizzata. Oggi il mondo è troppo complesso per poter essere compreso da un singolo individuo o organismo.

Giovanni Paolo II, con il suo libro Alzatevi, andiamo, come ha commentato il card. Ratzinger nell’omelia della messa delle esequie, ci ha risvegliato da una fede stanca, dal sonno dei discepoli di ieri e di oggi. È ora di alzarsi e di guardare avanti con rinnovato coraggio, di andare al largo, in mare aperto, sapendo che numerose saranno le sfide che ci attendono, ma anche con la fiducia serena e incrollabile nella promessa del Signore: “Ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli”. Sarà compito ora del nuovo pontefice guidare questa Chiesa verso nuovi orizzonti nella fedeltà a Cristo e all’uomo e alla sua chiamata alla salvezza.



A.D.

5.23.2005

Presa sul serio la nostra voglia di felicità

di Davide Rondoni

Nell'inizio c'è tutto, dicono i saggi. Lo sanno i registi. Nell'ingresso di un attore si gioca molto della sua interpretazione. Un grande poeta francese, per indicare l'importanza e il mistero dell'inizio, diceva: il primo verso è dato. L'inizio non è l'apparenza. È come il primo risuonare dell'accento nuovo. La verità di una parola è spesso nell'accento con cui la pronunciamo. Si può pronunciare persino la parola Dio con un accento vuoto, insipido, morto. E anche la parola amore. Che cosa dà l'accento alle parole? La vita, l'esperienza che del contenuto di quelle parole si sta facendo. Oggi, a un mese dalla sua elezione, possiamo tentare di cogliere meglio l' accento di papa Benedetto XVI. Accento tedesco, certo, e lavorato dalla dolcezza e dallo studio di Roma. Il popolo che lo ha salutato con gran festa al suo primo affacciarsi in San Pietro, ha colto subito, nelle iniziali parole, un accento che via via nei seguenti giorni si è potenziato, e si sta chiarendo. Al popolo quell'accento è piaciuto. Non era, come avevano scritto i giornali che si autodefiniscono intelligenti e illuminati, l'accendo freddo di un censore, di un giudice delle debolezze umane. Il popolo ha colto subito: era l'accento di un uomo certo e semplice. E tanti, anche tra i lontani, hanno ringraziato il cielo, o chissà chi, per aver mandato un uomo così. Questo Papa sta mettendo il suo accento sulle parole che la cultura e la propaganda dominante vorrebbero sottrarre all'esperienza della fede. La parola "desiderio", la parola "male". Ha messo l'accento sul desiderio di felicità degli uomini. Ha detto più volte: Gesù Cristo è interessante perché risponde al desiderio di felicità piena. È l'unica risposta. È l'unico a prenderlo sul serio. Offre il centuplo. Ha messo l'accento sul fatto che quella grande , strana cosa nominata Chiesa vive nella storia perché Dio ama il desiderio di felicità dei suoi figli. Desiderio mille volte strumentalizzato, violato, deriso, frainteso nel mondo di oggi. Preso in giro.
In questo primo mese, più volte, il Papa ha invitato tutti (compresi coloro che della Chiesa sono membri e clero) a prendere sul serio il desiderio di felicità dell'uomo. A non avere paura che Cristo incontri proprio la profondità di quel desiderio. E ieri, ancora una volta, commentando il film sulla vita del suo amico e predecessore, Karol Wojtyla, ha messo il suo accento sulle grandi ferite della storia. Ha detto: «Come non leggere alla luce di un provvidenziale disegno divino il fatto che sulla cattedra di Pietro, ad un Pontefice polacco sia succeduto un cittadino di quella terra, la Germania, dove il regime nazista poté affermarsi con grande virulenza, attaccando poi le nazioni vicine, tra le quali in particolare la Polonia? Entrambi questi Papi in gioventù, seppure su fronti avversi e in situazioni differenti, hanno dovuto conoscere la barbarie della seconda guerra mondiale e dell'insensata violenza di uomini contro altri uomini, di popoli contro altri popoli».
«Non siamo in Paradiso. La preghiera popolare alla Vergine, il Salve Regina, ce lo ricorda con realismo: camminiamo in una valle di lacrime. Basta guardarsi attorno, accendere la tv. A questo non si risponde con una presunta e violenta utopia. La menzogna di chi ritiene che l'uomo sia un meccanismo che pian piano si perfeziona fino a che, come diceva Eliot, non ci sia più bisogno di essere buoni». Ha soggiunto Papa Benedetto XVI: «Perdonare, ricordava ancora l'amato Giovanni Paolo II, non significa dimenticare, e aggiungeva che se la memoria è legge della storia, il perdono è potenza di Dio, potenza di Cristo che agisce nelle vicende degli uomini» ;. Il perdono è l'unica forza che rende la vita, questa valle, abitabile. L'unica forza di libertà profonda. Perché libera dalla schiavitù di tutti i padroni. Anche del male o del dolore, togliendo il veleno della solitudine e mostrando vicina una speranza.