benedettosedicesimo

4.22.2005

Quel braccio di ferro con Lefebvre

di Salvatore Mazza

«Negli ultimi mesi abbiamo investito una buona mole di lavoro nel problema di Lefebvre...». C’è tutto l’understatement ratzingeriano nell’incipit di una relazione nella quale, nel luglio del 1988, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede raccontava il succedersi degli eventi che avevano portato, alla fine del giugno precedente, al consumarsi dello scisma. E questo nonostante le «concessioni davvero ampie» che erano state fatte alla Fraternità ribelle, nonostante tutti gli sforzi, nonostante un accordo già firmato – il 5 maggio – e disdetto il giorno dopo dal vescovo francese. Una fase concitata, di cui Benedetto XVI è stato il protagonista; e lui, considerato all’epoca quasi un "persecutore spietato" dei teologi "progressisti", davvero inflessibile si dimostrò con i fautori di una restaurazione che, in sostanza, puntava a svuotare di significato il Concilio. «Il mito della durezza vaticana di fronte alle deviazioni progressiste – osservava nella stessa relazione il cardinale Ratzinger – si è palesato come una vacua elucubrazione. Fino a oggi si sono emesse fondamentalmente soltanto ammonizioni e in nessun caso pene canoniche in senso proprio. Il fatto che Lefebvre abbia denunciato alla resa dei conti un accordo già firmato, mostra che la Santa Sede... non gli abbia accordato quella licenza globale che desiderava». Fu proprio Ratzinger, in un drammatico faccia a faccia con il leader del movimento tradizionalista, a sbarrare di fatto la strada alle pretese di Marcel Lefebvre. Era il 4 maggio, e il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede si incontrò col presule in una casa di suore sulla via Aurelia, a Roma, presenti anche i teologi delle due parti che avevano messo a punto l’accordo . Sul tavolo le carte, pronte per la firma: in esse «Lefebvre aveva riconosciuto di dover accettare il Vaticano II – raccontava ancora Ratzinger – e le affermazioni del magistero post-conciliare, secondo l’autorità propria di ciascun documento». Il documento, insomma, è lì. Lefebvre chiede: «Ora che abbiamo deciso che posso avere un vescovo, per quando fissiamo la data di consacrazione?». Ratzinger fa presente che la domanda, così posta, è prematura, è il Papa che deve fare la nomina. Lefebvre insiste: il 30 giugno? Troppo presto. Il 15 agosto? Difficile. Il 1° novembre? Forse. Natale? Chissà. Il presule francese, il giorno successivo, avrebbe firmato l’accordo perché «non volevo si dicesse – scrive in un’intervista – che non stavo ai patti». Ma il 6, in una nuova lettera, annunciava che il 30 giugno avrebbe «comunque» proceduto a una consacrazione episcopale «anche senza il consenso di Roma». In sostanza, una lettera che disdiceva l’accordo firmato 24 ore prima. Gesto spiegato dallo stesso Lefebvre proprio a partire dal faccia a faccia con l’allora cardinale tedesco: «(Davanti a quell’incertezza sulla consacrazione espiscopale ndr) Mi sono detto: è finita. E ho compreso che tutte quelle trattative servivano a ingabbiare la Fraternità per farci accettare il Vaticano II». «Non era ammissibile – commentò tempo dopo, in privato, Ratzinger – che si potesse imporre al Papa che cosa fare e quando farlo». Con tutte le conseguenze del caso. Per dirla in parole molto semplici, il presule francese aveva tentato di risolvere la lunghissima controversia teologico-pastorale innescata vent’anni prima con un’ultima, estrema furbata, una sorta di braccio di ferro finale che, in seguito, gli avrebbe consentito di poter vantare un cedimento di Roma alle sue condizioni. Ratzinger, in questo, gli tagliò la strada. E lo costrinse a mettere sul piatto le sue carte quando, qualche giorno dopo la lettera del 6 maggio, gli rispose che la consacrazione si sarebbe potuta fare il 15 agosto, guarda caso la seconda delle date indicate da monsignor Lefebvre. Che però, a quel punto, s’era già spinto troppo avanti. La Chiesa, insomma, non aveva accordato quella «licenza globale» che il presule ribelle pretendeva. E che fino all’ultimo, con una forzatura di troppo, aveva cercato di prendersi. Salvo che dall’altra parte del tavolo, a giocare, non s’era trovato di certo uno sprovveduto.