benedettosedicesimo

6.22.2005

Quello che presentiamo è l’ultimo libro del Cardinale, e teologo e uomo di pensiero, Joseph Ratzinger, libro che esce quando egli è già divenuto Papa Benedetto XVI: di qui la trepidazione con cui mi accingo al mio odierno compito. Il titolo del libro è davvero emblematico: “L’Europa di Benedetto”, che è proprio il nome che il nuovo Papa ha scelto per sé, con un sottotitolo che precisa trattarsi dell’Europa nell’attuale crisi delle culture.

In effetti Joseph Ratzinger dell’Europa si è occupato a fondo, non solo in questo libro, affrontando i nodi decisivi della cultura europea, in rapporto al cristianesimo che in Europa ha ricevuto la sua impronta culturale e intellettuale storicamente più efficace e resta pertanto intrecciato in modo speciale all’Europa stessa (cfr p.35).

Proprio questo legame è però oggi in discussione e rischia di esser tagliato, non per motivi accidentali ma per la logica interna della razionalità che sembra dominare in Europa: una razionalità che l’Autore definisce scientifica e funzionale. E’ questa la forma attuale e apparentemente compiuta dell’illuminismo moderno: per essa è razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre nella prassi questo illuminismo si definisce sostanzialmente attraverso i diritti di libertà, con la libertà individuale come valore fondamentale che misura tutti gli altri e con la conseguente esclusione di ogni possibile discriminazione ai danni di qualcuno.

Nel quadro di questa forma di razionalità Dio non esiste o quanto meno non può essere accertato e perciò ogni riferimento a Dio va escluso dalla vita pubblica. Analogamente vien meno la coscienza morale come categoria valida in se stessa: dato però che una morale è comunque indispensabile per vivere, essa viene in qualche modo recuperata, non facendo riferimento a ciò che è in se stesso bene o male, ma soltanto al calcolo delle conseguenze, utili o dannose, dei nostri comportamenti (cfr pp.35-37).

La vera contrapposizione, l’eventuale scontro delle culture, non è allora tra le grandi religioni, che alla fine hanno sempre saputo vivere le une con le altre, ma tra questa razionalità puramente scientifica e funzionale e le grandi culture storiche. In questa chiave l’Autore affronta anche la questione del rifiuto delle radici cristiane dell’Unione Europea: una tale razionalità pretende infatti di essere universale, cioè valida per tutti, e compiuta in se stessa, ossia autosufficiente, e come tale esclude che il cristianesimo possa essere a sua volta un elemento determinante nella costruzione dell’Europa di oggi.

Proprio questa pretesa nel libro che presentiamo viene discussa in profondità. Joseph Ratzinger riconosce volentieri i valori dell’attuale cultura, come la libertà religiosa, i diritti dell’uomo, la democrazia, ma, al di là delle difficoltà pratiche di realizzarla dappertutto, mette in evidenza i suoi limiti intrinseci: è una cultura positivistica e antimetafisica, basata su una limitazione della ragione che è utile e necessaria nelle scienze empiriche, ma che non può essere universalizzata né è in grado di proporsi come autosufficiente.

Essa taglia infatti le radici che ha nella memoria dell’umanità e alla fine fa a meno dell’uomo stesso, riducendolo a un prodotto della natura, come tale non libero e suscettibile di essere trattato come ogni altro animale: si ha così un totale capovolgimento del punto di partenza di questa cultura, che era una rivendicazione dell’uomo e della sua libertà. Anche sul piano pratico, la libertà individuale che non discrimina, per la quale tutto è soltanto relativo al soggetto, diventa facilmente un nuovo dogmatismo perché esclude ogni altra posizione, che può essere lecita soltanto finché rimane subordinata e non in contraddizione con questo criterio relativistico: in tal modo diventa inammissibile l’espressione pubblica di un giudizio morale.

Dopo l’analisi critica, l’Autore avanza la sua proposta positiva, che parte da una premessa cara al teologo Joseph Ratzinger fin dal suo libro giovanile Introduzione al cristianesimo. Il cristianesimo è cioè la religione del Logos, che fin dalle origini ha individuato i propri precursori non tanto nelle altre religioni quanto nell’antico illuminismo filosofico, nella verità piuttosto che nella tradizione, e si è posto non come religione di Stato bensì come religione della libertà della fede.

In seguito il cristianesimo è certamente diventato anche tradizione e religione di Stato ed è stato merito dell’illuminismo moderno aver riproposto, spesso in polemica con la Chiesa, i valori originari del cristianesimo ed aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il significato storico del Concilio Vaticano II sta nell’aver nuovamente evidenziato la profonda corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, cercando di arrivare a una riconciliazione tra Chiesa e modernità (cfr pp.57-59).

Proprio l’essere religione del Logos è però la forza attuale del cristianesimo, di fronte a una cultura che dà il primato a una natura irrazionale di cui l’uomo e la sua ragione sarebbero soltanto un sottoprodotto. Infatti la razionalità dell’universo non può essere spiegata ragionevolmente sulla base dell’irrazionale e perciò il Logos, l’Intelligenza creatrice, rimane l’ipotesi migliore (cfr pp.59-60 e 122-124).

Se mi è lecita una piccola riflessione, avevo anch’io sostenuto questa tesi in due articoli pubblicati su Repubblica nel 1993 e poi ripresi nel libretto Le ragioni della fede. Questo Logos in Cristo crocifisso si è manifestato come amore e solo come amore ci mostra in concreto la via, il cammino per la piena realizzazione della nostra esistenza, come il Cardinale Ratzinger aveva spiegato più ampiamente nel suo libro Fede Verità Tolleranza.

E tuttavia l’uomo con le sue sole forze non riesce a fare completamente propria questa “ipotesi migliore” del Logos creatore; anzi, nell’attuale clima culturale vi riesce meno che nel passato (sebbene anche nel passato già esistesse una tale difficoltà, come emerge dal primo capitolo della Lettera di San Paolo ai Romani: cfr pp.115-119). Egli rimane infatti prigioniero di una “strana penombra” e delle spinte a vivere secondo i propri interessi, prescindendo da Dio e dall’etica. Soltanto la rivelazione, cioè l’iniziativa di Dio che si manifesta all’uomo e lo chiama ad accostarsi a lui, ci rende pienamente capaci di superare questa penombra.

A questo punto Joseph Ratzinger avanza, come credente, la sua “proposta ai laici”, che è lo sbocco naturale di questo libro. Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di definire le norme morali essenziali, le regole del vivere insieme, “etsi Deus non daretur”, cioè anche nel caso che Dio non esistesse: era questa in qualche modo una necessità storica, al tempo delle guerre di religione che insanguinavano l’Europa.

Ma ciò ha funzionato finché le convinzioni fondamentali del cristianesimo sono rimaste chiare e condivise tra i nostri popoli. Oggi però non è più così e il tentativo di plasmare il mondo facendo a meno di Dio ci conduce ad accantonare l’uomo (logicamente, del resto, perché se Dio non c’è diventa difficile sostenere che l’uomo sia più di un pezzo della natura). Joseph Ratzinger propone allora di capovolgere l’assioma: anche chi non riesce a trovare la via razionale per accettare Dio, cerchi comunque di vivere, ossia indirizzi la sua vita, “veluti si Deus daretur”, come se Dio ci fosse (vedi la celebre scommessa di Pascal): “così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno” (pp.61-63).

Ho presentato abbastanza organicamente il primo dei tre saggi di cui si compone il libro, quello pronunciato a Subiaco il 1° aprile scorso. Il terzo saggio è una lezione tenuta non molto prima a Bassano del Grappa, dal titolo “Che cosa significa credere”: esso completa il primo, mostrando come la scelta di credere, anche in se stessa, non sia certo meno plausibile della scelta opposta.

L’Autore fa questo partendo da una fenomenologia della fede reciproca tra gli uomini implicata nella vita quotidiana, per arrivare alla fede in Dio soprattutto attraverso l’analisi critica dell’atteggiamento contrario oggi prevalente, che non è l’ateismo (avvertito come qualcosa che supera i limiti della nostra ragione non meno della fede in Dio) ma è l’agnosticismo, che sospende il giudizio riguardo a Dio in quanto razionalmente non conoscibile.

Joseph Ratzinger critica questo atteggiamento non soltanto perché i limiti delle scienze empiriche non possono essere automaticamente considerati come limiti di tutto l’uomo e di tutta la sua intelligenza, ma specialmente perché l’agnosticismo non è concretamente vivibile, è un programma non realizzabile per la vita umana. Il motivo è che la questione di Dio non è soltanto teorica ma eminentemente pratica, ha conseguenze cioè in tutti gli ambiti della vita.

Nella pratica sono infatti costretto a scegliere tra due alternative: o vivere come se Dio non esistesse, oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della mia esistenza (Dio infatti, se c’è, non può essere un’appendice, ma l’origine, il senso e il fine dell’universo, e dell’uomo in esso). Se agisco secondo la prima alternativa adotto di fatto una posizione atea e non soltanto agnostica; se mi decido invece per la seconda alternativa adotto una posizione credente: la questione di Dio è dunque ineludibile (cfr pp.103-114).

A conclusione, l’Autore presenta la fede “soprannaturale” nella rivelazione di Dio (in analogia alla fede naturale tra gli uomini) e il suo ancoraggio anzitutto a Gesù Cristo, alla conoscenza che egli ha del Padre, e quindi ai Santi, che hanno seguito Cristo in questa conoscenza di Dio, con la possibilità di seguirlo anche per noi, se il nostro cuore rimane sincero ed aperto. Il saggio centrale di questo libro è più breve e concretizza il discorso su un punto fondamentale, quello del diritto alla vita in Europa: affronta cioè il tema dell’aborto, spiegando perché non bisogna rassegnarsi, in quanto l’aborto rimane un “piccolo omicidio”, che come tale ci porta a smarrire l’identità umana e a far prevalere il diritto della forza sulla forza del diritto.

Più in profondità c’è un problema morale, prima che giuridico, quello della capacità di guardare all’altro, di accogliere l’altro, di trattare l’altro – ma alla fine anche noi stessi – come persona e non come cosa, così come Dio tratta e accoglie ciascuno di noi: non per caso queste pagine (81-91) si intitolano “Decisivo è lo sguardo”.

A questo punto dovrei esporre le mie valutazioni, ma rinuncio volentieri, perché mi identifico nelle riflessioni e proposte dell’Autore, che sono penetranti e chiare e quindi facili da comprendere, pur nel carattere impegnativo degli argomenti trattati. Mi identifico con esse non soltanto e nemmeno principalmente perché il Cardinale Ratzinger è ora diventato Papa Benedetto XVI (sebbene in tutta la mia vita abbia cercato di accogliere con apertura di spirito le parole dei Papi e abbia trovato in esse ricchezza e gioia), ma semplicemente perché, in quanto persona che si sforza di pensare, condivido la diagnosi che l’Autore propone e le indicazioni che offre per dare risposte valide agli interrogativi del nostro tempo.

Card. Camillo Ruini

5.25.2005

Una Chiesa che guarda avanti

Numerose sono le sfide che la Chiesa dovrà affrontare mentre essa continua il suo cammino nella storia. La sua universalità le impone di realizzarsi sempre più come Chiesa-comunione, attraverso una maggiore sinergia fra il centro e la periferia. Lo richiede anche un mondo in continuo movimento.



Joseph Ratzinger è il nuovo successore di_Giovanni_Paolo II al soglio pontificio. È stato eletto il pomeriggio del 19 aprile e ha assunto il nome di Benedetto XVI. L’elezione è avvenuta a soli tre giorni di distanza dal suo compleanno: ha compiuto i 78 anni il 16 aprile, essendo nato il 16 aprile 1927 nel piccolo villaggio di Marktl am Inn, nella Baviera, situato nella diocesi di Passau. Erano 482 anni che un tedesco non ascendeva al soglio pontificio.

Sotto la sua guida ora la Chiesa, con rinnovata fiducia e l’assistenza dello Spirito Santo che mai le verrà a mancare, riprende il suo cammino nel tempo e nella storia. Riparte dalla consegna lasciatale da Giovanni Paolo II all’inizio del nuovo millennio, Duc in altum, che altro non è che la traduzione del comando di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15).

“Andate!”... in un mondo che oggi si presenta particolarmente burrascoso. Benedetto XVI ne è pienamente consapevole. Nell’omelia alla messa Pro eligendo Pontifice, celebrata immediatamente prima di entrare in conclave, quando ancora non sapeva che sarebbe stato eletto, ne ha tracciato un quadro impressionante. Ha detto: “Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice san Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf. Ef 4,14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.

Ma, ha proseguito, quasi anticipando le linee del suo pontificato, “noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. è lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. È quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna”” (1Cor 13,1).



UN MONDO

PIENO DI PROBLEMI



Nel suo primo saluto dalla loggia di San Pietro Benedetto XVI si è definito “un semplice umile lavoratore nella vigna del Signore”. Quindi nell’omelia, pronunciata durante la messa celebrata il mattino seguente nella cappella Sistina presenti tutti i cardinali, dopo aver detto che Giovanni Paolo II ci ha lasciato “una Chiesa più coraggiosa, più libera, più giovane; una Chiesa che, secondo il suo insegnamento ed esempio, guarda con serenità al passato e non ha paura del futuro”, riferendosi alla grande eredità del Concilio, e lasciando intravedere una linea che gli farà da guida nel suo pontificato, ha proseguito: “Anch’io, nell’ accingermi al servizio che è proprio del successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’ impegno di attuazione del concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa”.

La vigna che il Signore gli affida è un mondo in cui la popolazione ha superato i 6 miliardi di abitanti, di cui – non dobbiamo dimenticarlo – solo poco più di un miliardo sono i cattolici. Secondo le stime, per il 2025 gli abitanti del globo potrebbero raggiungere gli 8 miliardi. Ma sarà una crescita non uguale dappertutto. Il maggiore incremento si avrà nei paesi poveri del sud e sarà proprio qui dove si concentrerà anche il numero maggiore di giovani, in gran parte senza prospettiva di vita. È un mondo pieno di problemi, diversi da continente a continente, e in gran parte ancor da evangelizzare. Giovanni Paolo II aveva affermato che, all’inizio di questo terzo millennio, la missione è ancora agli inizi. E la missione, l’andare al largo a gettare le reti sarà certamente l’ampio orizzonte che farà da contesto a tutto il nuovo pontificato.



UNA LINEA

DI CONTINUITÀ



Benedetto XVI ha già affermato che egli proseguirà il cammino su una linea di continuità. La Chiesa non cercherà certo né di piacere né di conformarsi al mondo, poiché altrimenti diventerebbe sale che ha perso il sapore, luce posta non in alto, ma sotto il moggio. I suoi punti di riferimento saranno sempre la parola di Dio e il Vangelo.

La prima testimonianza che essa è chiamata a dare, di fronte al mondo tutto rivolto alle realtà terrene, è la proclamazione del primato di Dio su tutte le cose. Come ebbe a dire il grande teologo Karl Rahner con un’intuizione profetica: la Chiesa del ventunesimo secolo o sarà contemplativa o non sarà affatto. L’atteggiamento contemplativo dovrà pervadere tutta la sua vita, la sua opera di evangelizzazione e il suo impegno missionario, al cui centro ci deve essere l’annuncio del progetto di Dio sull’umanità intera al di là di ogni realizzazione umana. È questa l’indicazione lasciatale anche da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Novo millennio ineunte: “Gesù è “ l’uomo nuovo” (Ef 4,24; cf. Col 3,10) che chiama a partecipare alla sua vita divina l’umanità redenta. Nel mistero dell’Incarnazione sono poste le basi per un’antropologia che può andare oltre i propri limiti e le proprie contraddizioni, muovendosi verso Dio stesso, anzi, verso il traguardo della “divinizzazione”, attraverso l’inserimento in Cristo dell’uomo redento, ammesso all’intimità della vita trinitaria. Su questa dimensione soteriologica del mistero dell’Incarnazione i Padri hanno tanto insistito: solo perché il Figlio di Dio è diventato veramente uomo, l’uomo può, in lui e attraverso di lui, divenire realmente figlio di Dio”.

È da qui che la Chiesa deve muoversi. Giustamente il papa rileva: “Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio”. Ciò che invece è importante sarà di tradurre questo programma “in orientamenti pastorali adatti alle condizioni di ciascuna comunità”.

Per riuscirvi è necessario che nella Chiesa si affermi sempre più quella dimensione di comunione, già contenuta nei documenti del concilio e sviluppata successivamente dal magistero e dalla teologia in questi ultimi decenni. Per questa ragione, di fronte alla sua universalità e all’affermarsi delle chiese particolari, uno dei problemi da affrontare è di riuscire a coniugare insieme l’unità nella diversità. In concreto, ciò esige la ricerca di un nuovo equilibrio tra centro e periferia. Come ha affermato recentemente il card. Danneels: “Se finora abbiamo avuto un papa forte, ora è necessario avere anche un episcopato forte”.

Del resto anche Giovanni Paolo II ne era consapevole. È stato proprio lui, infatti, nell’enciclica Ut unum sint, a chiedere di essere aiutato a ripensare il modo di esercitare il primato. Pur rivolgendosi alle chiese cristiane, la richiesta deve essere presa in considerazione anche all’interno della stessa chiesa cattolica.

Sono numerose infatti le voci che in questi ultimi tempi hanno avanzato delle proposte. Una delle più autorevole è stata, per esempio, quella del cardinale Martini. Al sinodo dei vescovi per l’Europa, del 1999, egli aveva detto di “avere un sogno”: di vedere una Chiesa in cui diventi più effettiva la “comunione” attraverso nuove scelte di collegialità in grado di superare quelle attuali. Il sinodo dei vescovi, è stato indubbiamente uno strumento quanto mai importante, ma ormai, nella sua formula attuale, sembra avere in parte esaurito la sua funzione. A parere del cardinale, e di altri che hanno poi raccolto la sua “provocazione”, occorre trovare nuove modalità per esprimere la comunione della Chiesa, ossia dei luoghi per un confronto collegiale e autorevole di tutti i vescovi per cercare di rispondere ai temi nodali emersi in questi ultimi decenni e ai nuovi che si propongono.

Un’altra voce autorevole è quella del cardinale Cormac Murphy-O’Connor, di Westminster (Londra). Lo scorso novembre, durante un incontro con alcuni capi cristiani, disse: “I vescovi governano la Chiesa con e sotto il papa e il papa governa in comunione con i vescovi. Mai Pietro senza gli undici e mai gli undici senza Pietro. Mi sembra che questo rapporto abbia bisogno di una nuova enfasi se si vuole che il governo della Chiesa sia più credibile nel mondo d’oggi. Deve essere reso più concreto di come è in questo momento. C’è un assioma latino che dice: ubi episcopus, ibi ecclesia, dove c’è il vescovo lì c’è la Chiesa. Ciò significa che ogni vescovo deve ascoltare la fede del popolo di Dio nella sua diocesi per essere informato su ciò che lo Spirito di Dio dice in ciascun cristiano e poi, per mandato di Cristo, governare”.

Allargando la prospettiva, il cardinale ha aggiunto: “Oggi noi viviamo in un villaggio globale ed essendo il cristianesimo una religione mondiale bisognerebbe che la collaborazione assumesse un carattere universale. Per esempio, mi piacerebbe vedere il prossimo pontefice, chiunque sia, riunire insieme i capi delle principali denominazioni cristiane e sulla base della nostra comunione – la nostra fede in Cristo, il battesimo, lo Spirito Santo e la parola di Dio – condividere più profondamente e più comunitariamente il desiderio che abbiamo di annunciare e diffondere la parola di Dio”.



ORGANISMI

PIÙ AGILI



Come riuscire ad attuare questa richiesta? Alcuni hanno lanciato l’idea di un nuovo concilio ecumenico. Un’iniziativa del genere è sostenuta con particolare forza soprattutto negli ambienti latinoamericani. Attorno ad essa, come si può costatare anche dal sito internet www.proconcil.org, sono state raccolte varie firme tra cui quelle di un paio di cardinali, di diversi vescovi, sacerdoti, religiosi/ e laici. È probabile che questa iniziativa, con l’inizio del nuovo pontificato, acquisti nuovo slancio. Ma come ha dichiarato recentemente Louis Marie Billé, arcivescovo di Lione e presidente della conferenza episcopale francese, rimettere in piedi un concilio non è cosa tanto facile. Sembrerebbe più agevole, e anche più efficace – data la sua maggiore scioltezza e tenuto presente il rapido cambiamento dei tempi – la proposta suggerita dal card. Martini di convocare di tanto in tanto delle assemblee sinodali veramente rappresentative di tutto l’episcopato per affrontare questioni che sono in agenda nella vita della Chiesa e sciogliere così qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino della Chiesa.



PUNTI NODALI

DA SCIOGLIERE



È comunque certo che solo una Chiesa più comunionale, potrà affrontare in maniera più efficace e appropriata questi punti nodali. Proviamo a indicarne solo alcuni per aree geografiche: la secolarizzazione e scristianizzazione in Europa, con il conseguente calo delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa; il problema dell’annuncio del Vangelo in Asia e il confronto con sue antichissime culture e religioni; i problemi della missione in Africa oltre a quelli endemici della povertà, delle guerre, ecc.; la drammatica aggressione delle sette in America latina...

A tutto questo bisogna aggiungere, l’urgenza di rafforzare il dialogo ecumenico con le altre chiese, che in questo momento ristagna, così pure l’incontro con le altre religioni, in particolare con l’islam, il confronto con la cultura moderna postmoderna, il rapporto tra scienza e fede e tra scienza e i nuovi problemi etici, gli interrogativi posti dal nuovo progresso tecnologico che può portare l’uomo e l’umanità verso una migliore umanizzazione, ma anche alla sua disumanizzazione.

Altri temi importanti sono quelli relativi alla posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le chiese sorelle dell’ortodossia, il rapporto tra democrazia e valori e tra legge civile e leggi morali...

Si potrebbero inoltre aggiungere anche le quattro “sfide” indicate dallo stesso Giovanni Paolo II nel discorso al corpo diplomatico presso la Santa Sede, all’inizio di quest’anno: la sfida della vita, la sfida del pane, la sfida della pace, la sfida della libertà.

Un altro aspetto decisivo riguarda l’inculturazione della fede, su cui si giocherà il futuro della Chiesa in tante parti del mondo. Sappiamo tutti quanto sia delicato. È un problema che non potrà essere risolto solo dal centro, ma avrà bisogno piuttosto del contributo di comunità di fede impegnate e di una leadership locale che meglio di ogni altro conosce la storia e la cultura del proprio popolo. In altre parole, c’è bisogno di una Chiesa più decentralizzata. Oggi il mondo è troppo complesso per poter essere compreso da un singolo individuo o organismo.

Giovanni Paolo II, con il suo libro Alzatevi, andiamo, come ha commentato il card. Ratzinger nell’omelia della messa delle esequie, ci ha risvegliato da una fede stanca, dal sonno dei discepoli di ieri e di oggi. È ora di alzarsi e di guardare avanti con rinnovato coraggio, di andare al largo, in mare aperto, sapendo che numerose saranno le sfide che ci attendono, ma anche con la fiducia serena e incrollabile nella promessa del Signore: “Ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli”. Sarà compito ora del nuovo pontefice guidare questa Chiesa verso nuovi orizzonti nella fedeltà a Cristo e all’uomo e alla sua chiamata alla salvezza.



A.D.

5.23.2005

Presa sul serio la nostra voglia di felicità

di Davide Rondoni

Nell'inizio c'è tutto, dicono i saggi. Lo sanno i registi. Nell'ingresso di un attore si gioca molto della sua interpretazione. Un grande poeta francese, per indicare l'importanza e il mistero dell'inizio, diceva: il primo verso è dato. L'inizio non è l'apparenza. È come il primo risuonare dell'accento nuovo. La verità di una parola è spesso nell'accento con cui la pronunciamo. Si può pronunciare persino la parola Dio con un accento vuoto, insipido, morto. E anche la parola amore. Che cosa dà l'accento alle parole? La vita, l'esperienza che del contenuto di quelle parole si sta facendo. Oggi, a un mese dalla sua elezione, possiamo tentare di cogliere meglio l' accento di papa Benedetto XVI. Accento tedesco, certo, e lavorato dalla dolcezza e dallo studio di Roma. Il popolo che lo ha salutato con gran festa al suo primo affacciarsi in San Pietro, ha colto subito, nelle iniziali parole, un accento che via via nei seguenti giorni si è potenziato, e si sta chiarendo. Al popolo quell'accento è piaciuto. Non era, come avevano scritto i giornali che si autodefiniscono intelligenti e illuminati, l'accendo freddo di un censore, di un giudice delle debolezze umane. Il popolo ha colto subito: era l'accento di un uomo certo e semplice. E tanti, anche tra i lontani, hanno ringraziato il cielo, o chissà chi, per aver mandato un uomo così. Questo Papa sta mettendo il suo accento sulle parole che la cultura e la propaganda dominante vorrebbero sottrarre all'esperienza della fede. La parola "desiderio", la parola "male". Ha messo l'accento sul desiderio di felicità degli uomini. Ha detto più volte: Gesù Cristo è interessante perché risponde al desiderio di felicità piena. È l'unica risposta. È l'unico a prenderlo sul serio. Offre il centuplo. Ha messo l'accento sul fatto che quella grande , strana cosa nominata Chiesa vive nella storia perché Dio ama il desiderio di felicità dei suoi figli. Desiderio mille volte strumentalizzato, violato, deriso, frainteso nel mondo di oggi. Preso in giro.
In questo primo mese, più volte, il Papa ha invitato tutti (compresi coloro che della Chiesa sono membri e clero) a prendere sul serio il desiderio di felicità dell'uomo. A non avere paura che Cristo incontri proprio la profondità di quel desiderio. E ieri, ancora una volta, commentando il film sulla vita del suo amico e predecessore, Karol Wojtyla, ha messo il suo accento sulle grandi ferite della storia. Ha detto: «Come non leggere alla luce di un provvidenziale disegno divino il fatto che sulla cattedra di Pietro, ad un Pontefice polacco sia succeduto un cittadino di quella terra, la Germania, dove il regime nazista poté affermarsi con grande virulenza, attaccando poi le nazioni vicine, tra le quali in particolare la Polonia? Entrambi questi Papi in gioventù, seppure su fronti avversi e in situazioni differenti, hanno dovuto conoscere la barbarie della seconda guerra mondiale e dell'insensata violenza di uomini contro altri uomini, di popoli contro altri popoli».
«Non siamo in Paradiso. La preghiera popolare alla Vergine, il Salve Regina, ce lo ricorda con realismo: camminiamo in una valle di lacrime. Basta guardarsi attorno, accendere la tv. A questo non si risponde con una presunta e violenta utopia. La menzogna di chi ritiene che l'uomo sia un meccanismo che pian piano si perfeziona fino a che, come diceva Eliot, non ci sia più bisogno di essere buoni». Ha soggiunto Papa Benedetto XVI: «Perdonare, ricordava ancora l'amato Giovanni Paolo II, non significa dimenticare, e aggiungeva che se la memoria è legge della storia, il perdono è potenza di Dio, potenza di Cristo che agisce nelle vicende degli uomini» ;. Il perdono è l'unica forza che rende la vita, questa valle, abitabile. L'unica forza di libertà profonda. Perché libera dalla schiavitù di tutti i padroni. Anche del male o del dolore, togliendo il veleno della solitudine e mostrando vicina una speranza.

5.17.2005

Pietro dice: unità nella fede

Il nuovo papa viene dalla nazione tedesca (l’ultimo papa tedesco era stato Vittore II, 1055­1057) e ha scelto il nome di Benedetto XVI. Un nome iscritto nel cuore della storia dell’Europa: quella del monachesimo latino, evangelizzatore e civilizzatore del continente; quella novecentesca, devastata dalla morte di massa, legittimata e sperimentata attraverso due guerre totali e persino pianificata in quell’eruzione dell’orrore che fu la Shoah. Un’Europa tuttavia che non si è lasciata vincere dal male e nella quale il magistero dei papi, a partire da Benedetto XV, ha cercato d’ispirare alle coscienze la consapevolezza umana e il fondamento cristiano dell’irrazionalità e dell’inutilità della guerra, nonché la delegittimazione al suo ricorso quale strumento del diritto internazionale.

L’Europa, il cristianesimo europeo, ottengono, attraverso l’elezione di questo papa, un tempo ulteriore della loro «missione» storica. La Chiesa europea non ha ancora esaurito la sua centrale responsabilità nella Chiesa, anche se il conclave ha lasciato intravedere all’orizzonte un nuovo ruolo dell’America Latina.

Questa scelta si situa dopo la riunificazione del continente e la fine del comunismo e dello scontro ideologico. Proprio a motivo di questo esito, cui aveva posto mano il pontificato di papa Wojtyla, essa è stata resa possibile. Senza il papa polacco, e il suo disegno di riconciliazione e di purificazione delle memorie del cristianesimo, segnatamente nella storia europea, un papa tedesco non sarebbe stato pensabile.

La scelta di un nome europeo occidentale, dopo il ricongiungimento dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, indica la priorità programmatica della rievangelizzazione di una civiltà che ha avuto nel cristianesimo (anzi nei cristianesimi) le sue più robuste radici e dalle quali è sorta e poi, come il figlio prodigo, si è allontanata la modernità illuminista. A Est come a Ovest, al paolino «la verità vi renderà liberi» essa ha sostituito l’assunto di un io che definisce la propria libertà come estranea a ogni fondamento, consegnandola sempre e soltanto al proprio esperimento.

Nella rievangelizzazione (intesa come approfondimento della fede e rivitalizzazione delle molteplici tradizioni cristiane) è dunque individuata la questione decisiva per il futuro, a partire proprio dall’Europa.

Ridire l’essenza del cristianesimo è il modo per reggere le nuove sfide: il rischio avanzato di uno scontro delle civiltà, che oggi, dopo l’esplosione del terrorismo fondamentalista, mette nuovamente in questione la pace e ripropone forme di giustificazione religiosa della violenza; e la nuova definizione di persona (la svolta antropologica) conseguente all’avvento delle nuove tecniche della vita e della morte e della pervasività della comunicazione (cf. Regno 7,2005,102).

La rivitalizzazione e il rinnovamento delle tradizioni cristiane non significa il ritorno a una concezione fortemente istituzionalizzata della Chiesa, o della fede come un’ideologia, un sistema dottrinale onnicomprensivo, o un modello di religione civile utile ai potenti, ma guarda piuttosto alla concezione della Chiesa come una comunione e un popolo, abbraccia le domande che il Vangelo pone alla nostra vita.

La scelta del card. Ratzinger è una scelta di continuità. Dal 1981 egli è stato il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e da quell’incarico ha argomentato a livello teologico le principali scelte pastorali che Giovanni Paolo II ha inteso operare (cf. Regno­att. 4,1994,65). Numerose sono state anche le controversie teologiche che lo hanno riguardato (cf. Regno 7,2005,1ss). Ma un conto è il prefetto e un conto è l’apostolo. Con questa consapevolezza, papa Benedetto ha chiesto preghiere e fiducia nei suoi primi interventi.
Le parole programmatiche

Le ultime parole da cardinale decano, pronunciate da Ratzinger nell’omelia della messa «pro eligendo romano pontifice», erano state queste: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo a un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice san Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf. Ef 4,14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo…».

Le prime parole che Benedetto XVI ha pronunciato la mattina del 20 aprile nella Cappella sistina – parole a cui egli stesso ha conferito, nella liturgia d’inizio del pontificato, un significato programmatico – sono apparse più fiduciose, meno drammatiche; e sono state: Cristo e Pietro; comunione collegiale; il Concilio come bussola; eucaristia come fulcro della missione; ecumenismo; dialogo delle civiltà; giovani. Nell’omelia per l’inizio del suo ministero petrino ha poi esclamato: «La Chiesa è viva, e noi la vediamo».

L’insistenza sulla figura della chiamata di Pietro e della relazione tra Cristo e Pietro lascia intendere la volontà del nuovo papa di esercitare il magistero petrino con decisione. Non sappiamo in che modo egli intenda esercitarlo, se si tratterà di una continuità con le modalità dei papi precedenti o se, anche in ottemperanza a quanto Giovanni Paolo II aveva chiesto nell’enciclica Ut unum sint e tenendo conto del livello attuale dei problemi e dei risultati del dialogo ecumenico, egli intenda aggiornarne il metodo.

La seconda parola ha riguardato appunto la collegialità, cioè la forma originaria dell’ufficio spirituale che il Signore stesso ha stabilito per i Dodici, che il concilio Vaticano II ha con forza ribadito (cf. Lumen gentium, n. 22). «Questa comunione collegiale – egli ha detto – pur nella diversità dei ruoli e delle funzioni del romano pontefice e dei vescovi, è a servizio della Chiesa e dell’unità nella fede, dalla quale dipende in notevole misura l’efficacia dell’azione evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul quale hanno avanzato i miei venerati predecessori, intendo proseguire anch’io, unicamente preoccupato di proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo».

La terza parola è Concilio. Il nuovo papa ha confermato la sua decisa volontà di proseguirne l’attuazione: «Col passare degli anni, i documenti conciliari non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano anzi particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata». Ratzinger è l’ultimo grande partecipante al Vaticano II. L’ultimo testimone diretto. In qualità di teologo egli vi ricoprì il ruolo di perito. Se, come molti osservatori hanno annotato, la scelta iniziale del card. Ratzinger è stata fatta e sostenuta soprattutto dalla parte conservatrice e tradizionalista del collegio cardinalizio, allora la sua nomina può significare l’accettazione definitiva del Vaticano II da parte di ogni componente della Chiesa comprese quelle che sin qui sono state ostili e il superamento delle contrapposizioni precedenti. «Giustamente il papa Giovanni Paolo II ha indicato il Concilio quale “bussola” con cui orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio (cf. Novo millennio ineunte, nn. 57-58). Anche nel suo testamento spirituale egli annotava: “Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito” (17.3.2000)».

All’eucaristia, compresa sia in termini sacramentali sia in termini devozionali, il papa ha riservato un passaggio centrale. È stato questo uno dei temi su cui maggiore era stata la critica nei suoi confronti, ai tempi della sua prefettura, per le tendenze «restaurazioniste» che si potevano cogliere in talune affermazioni. Il 2005 è in questo senso un anno particolarmente indicativo: è l’anno eucaristico e all’eucaristia sono dedicati numerosi eventi ecclesiali: dalla giornata mondiale della gioventù di Colonia (in agosto) all’Assemblea ordinaria del sinodo dei vescovi (in ottobre), e per quel che riguarda l’Italia il Congresso eucaristico di Bari (a maggio). «A tutti – ha detto il papa – chiedo di intensificare nei prossimi mesi l’amore e la devozione a Gesù eucaristia e di esprimere in modo coraggioso e chiaro la fede nella presenza reale del Signore, soprattutto mediante la solennità e la correttezza delle celebrazioni».
Ecumenismo impegno primario

La questione ecumenica ha ottenuto la più incisiva delle sottolineature. Essa è stata impostata a partire dalla conversione interiore (a San Paolo fuori le mura, qualche giorno dopo, egli parlerà esplicitamente di «ecumenismo spirituale»); ciò che urge maggiormente è la «purificazione della memoria», che «sola può disporre gli animi ad accogliere la piena verità di Cristo». A partire da questa conversione il papa pone i gesti concreti, la ricerca storica, il dialogo teologico. Il papa sente che qui si gioca il futuro della Chiesa e dichiara di assumere «come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere». La promessa è solenne e per renderla ultimativa, trovandosi al cospetto del Giudizio michelangiolesco, aggiunge: «È davanti a lui, supremo giudice di ogni essere vivente, che ciascuno di noi deve porsi, nella consapevolezza di dovere un giorno a lui rendere conto di quanto ha fatto o non ha fatto nei confronti del grande bene della piena e visibile unità di tutti i suoi discepoli (...) L’attuale successore di Pietro si lascia interpellare in prima persona da questa domanda ed è disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo».

Meno vivido sembra essere l’accento posto sul dialogo interreligioso. Il quadro della Dominus Iesus è pienamente confermato. Qui è la categoria geopolitica di civiltà o quella culturale e filosofica di senso, non ancora quella teologica, a tessere l’ordito: «Il nuovo papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo. Con questa consapevolezza mi rivolgo a tutti, anche a coloro che seguono altre religioni o che semplicemente cercano una risposta alle domande fondamentali dell’esistenza e ancora non l’hanno trovata (...) Non risparmierò sforzi e dedizione per proseguire il promettente dialogo avviato dai miei venerati predecessori con le diverse civiltà, perché dalla reciproca comprensione scaturiscano le condizioni di un futuro migliore per tutti». Non c’è spazio per scontri di civiltà più o meno auspicati, né per una diminuzione del concetto di pace. Il riferimento alle civiltà implica oggi in modo urgente il confronto con l’islam religioso e le sue diversità politiche, ma apre anche a una diversa intesa con il mondo cinese, oggi più alla portata della Chiesa cattolica.

Negli interventi successivi il nuovo papa è tornato sull’argomento del dialogo interreligioso utilizzando anche categorie più direttamente teologiche. In particolare è il dialogo con gli ebrei che può conoscere uno sviluppo ulteriore. Su questo confronto, il card. Ratzinger era intervenuto più volte e in modo innovativo (cf. Regno-doc. 3,2001,96), descrivendo in termini di «dono» e di «eredità» la singolare relazione che intercorre tra la fede di Israele e la fede della Chiesa.

Benedetto XVI in tutti i suoi primi interventi ha chiesto fiducia e preghiere a tutta la Chiesa. Egli sa la difficoltà di passare immediatamente dal ruolo di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede a quello di apostolo della missione. È quella distanza che Paolo, scrivendo ai Corinti, esplicita nella volontà di non volere «fare da padrone sulla vostra fede», ma di preferire piuttosto essere «collaboratore della vostra gioia» (2Cor 1,24). Una distanza che Benedetto XVI intende percorrere.

5.14.2005

Una sintesi efficace

di Stefano Fontana


Nel libro-intervista "Varcare la soglia della speranza", Vittorio Messori chiese a Giovanni Paolo II quale fosse la frase del Vangelo a lui più cara. Il Papa rispose: "La verità vi farà liberi". Amo immaginare che anche l'allora cardinale Ratzinger, oggi Benedetto XVI, avrebbe risposto allo stesso modo. E non solo in senso strettamente religioso, ma anche in ordine ai problemi sociali e politici. Si può dire, infatti, che esista già un cospicuo "corpus" di riflessioni sia di Ratzinger teologo e filosofo, sia di documenti della Congregazione per la dottrina della fede - di cui l'attuale Pontefice è stato per molti anni prefetto - che possiamo chiamare di magistero sociale. Questo magistero trova una sintesi efficace nella denuncia della "dittatura del relativismo", potentemente evocata nella messa "pro eligendo Pontifice". L'espressione ha fatto il giro del mondo, perché tutti i riflettori erano puntati lì, ma non è una novità del pensiero sociale e politico del nuovo Papa.
La libertà si fonda sulla verità. La libertà di coscienza, la libertà di cultura e la libertà di religione non si basano sull'equivalenza delle idee, delle culture e delle religioni, ma su una verità rocciosa: la trascendente dignità della persona umana. Nell'opposizione al relativismo in tutti questi campi, il cardinale Ratzinger, sia come pensatore sia come prefetto, ha tracciato linee chiare circa il rapporto interreligioso, quello interculturale e sul concetto di laicità della politica. La "Nota dottrinale" del 2002 della sua Congregazione chiarisce che di quella trascendente dignità ha bisogno anche la società e la politica, per agganciare i diritti della persona a un fondamento assoluto e impedire che essi vengano manipolati a piacere. Nel suo libro "Verità, tolleranza, religioni" spiega che "non sarebbe difficile dimostrare che la concezione del singolo come persona e la tutela del valore della dignità d'ogni persona non si possono sostenere senza che siano fondati sull'idea di Dio". Aggiungendo, poi, che non tutte le religioni sono in grado di garantire quella trascendente dignità in egual modo. Una religione dell'incontro personale con Dio, come quella cristiana, lo fa senz'altro meglio, poniamo, di una religione che spera nell'annegamento nell'indistinzione. Una religione storica e una fede sposa della ragione possono assolvere meglio questo compito di una religione o fede che invece non hanno conosciuto nessun incontro storico con Dio e pretendono di smemorare l'uomo in un misticismo sincretistico.
Qualcuno ha scritto in questi giorni, ricchi di parole sul nuovo Papa, che la frontiera di Benedetto XVI sarà sì la fede, ma soprattutto la ragione. È condivisibile, anche se sarebbe meglio dire: una fede che sposa la ragione, una "fede adulta" come disse Ratzinger nella sua ultima omelia da cardinale. Nei suoi lavori teologici e filosofici c'è la passione dell'unità della verità e, quindi, l'idea che l'incontro tra cristianesimo e pensiero greco sia stato provvidenziale, che l'incontro del cristianesimo con le culture avviene nella verità, e che il razionalismo è, in fondo, una nuova fede, totalitaria e intollerante.
Secondo Ratzinger, la pretesa di una laicità senza Dio, ossia di una assolutezza della conoscenza razionale, è altrettanto "assoluta" quanto la pretesa, da essa criticata, di una presenza confessionale nella storia: "Anche l'emergere di una impostazione basata su una concezione della realtà rigorosamente razionale ha una sua propria assolutezza, l'assolutezza della conoscenza razionale, la tesi dell'esclusiva validità del conoscere scientifico e, di conseguenza, diventa contestazione dell'assolutezza religiosa".
La laicità, così intesa, non è, come spesso si ritiene, una forma di "neutralità" o di "obiettività". È, invece, una presa di posizione (assoluta), che può esercitare una forma di intolleranza non meno grave e pericolosa di quella che spesso si attribuisce alla religione. Può essere una presa di posizione dogmatica che afferma: nel campo pubblico non si devono dare verità di tipo religioso. Comunemente la si chiama laicismo e secondo Benedetto XVI: "Per il futuro della religione e delle sue chances nell'umanità, assumerà importanza decisiva il modo in cui la religione sarà in grado di impostare il suo rapporto con questa via".
L'idea dello spazio pubblico neutro dalle religioni si fonda sulla "dittatura del relativismo" e lo Stato che lo attua presume di creare spazi di libertà mentre in realtà impone questa dittatura.
La rivendicazione del valore pubblico del cristianesimo aiuta la società a trovare il suo senso e la sua libertà.