Lo sguardo commosso del cardinale di ferro
di VITTORIO ZUCCONI
SONO le 18 e 50, ora di Roma, quando Benedetto XVI guarda per la prima volta il mondo guardare lui, nello sforzo reciproco di capirsi e nella fatica di ricominciare a voler bene a un nuovo Papa. Nel suo sguardo un po' attonito e quasi commosso, per un cardinale di ferro come Joseph Ratzinger, e nell'applauso affettuoso, ma non esplosivo, del popolo che aveva già intuito il nome dalla velocità della scelta, c'è il languore di una sera romana spossata che ha bruciato troppa passione e ha pianto troppe lacrime in questa piazza per non sentire la fatica, e non avvertire il desiderio, di un Papa che provvidenzialmente promette più dottrina che sensazioni.
Ci saranno molti minuti di silenzio, tra lui e la piazza che si guardano e si studiano, nei 600 secondi che il successore di Giovanni Paolo II trascorrerà sulla loggia delle benedizioni fino alle 19, dopo il brevissimo discorso che passerà alla storia come "il discorso del lavoratore nella vigna" e dopo la prima benedizione letta con mezze lenti da presbite, per non sbagliare una coniugazione o una declinazione in latino.
Sono pause che raccontano l'enormità del vuoto che lui è stato chiamato da ieri sera a colmare. Se non c'era, qui nel cuore dell'universo cattolico, lo sbalordito entusiasmo che sentii esplodere quel 16 ottobre del 1978, quando il cardinale Felici annunziò il nome misterioso di Karol Wojtyla, c'era invece, e in pieno, nei secondi agitati del "bianco, nero, grigio, bianco" sbuffato alle 17 e 50, lo stesso squisito panico da sala parto, dove fratelli, sorelle e famigliari convenuti da tutto il mondo attendono l'annuncio che è nato e che la vita della casa svuotata da una morte ricomincia con il pianto di un bambino o con la voce di un Papa. Siamo tutti parenti di colui che sta per nascere e sta per essere esposto alla nostra curiosità in quella ineguagliabile "nurserie" che è Piazza San Pietro, tornata a essere luogo di nascite dopo essere stato luogo di lutto. Non ci sono atei, per una sera, tra i centomila che sono arrivati di corsa giù per via della Conciliazione e dai vicoli del Borgo Pio aggrappati ai loro telefonini quando le 64 postazioni televisive ammucchiate sfacciatamente in piazza Pio XII hanno inquadrato il comignolo, agitando bandiere nazionali e cartelli fatti in casa, come il "Benvenudo Successore di Giovanni Paolo"
esibito da un Antonio venuto dall'Irpinia, corretto poi a pennarello in "Benvenuto".
Un Papa nuovo è insieme un padre e un figlio, per la comunità dei cristiani cattolici, come lui sa perfettamente, chiedendo a noi di pregare per lui.
Non ci sono forzature telegiornalistiche capaci di modernizzare l'incanto anacronistico della stufa. O di attualizzare il rito della finestra che si apre alle 18 e 40, imponendo un silenzio identico, e opposto, a quello che ascoltai nelle ore finali di Giovanni Paolo. La tenda rossa scura di velluto che si apre a fatica, mossa da mani che pasticciano un po', che tirano e mollano, nell'emozione che sta dietro il sipario come tra noi davanti, è la rappresentazione perfetta di qualcosa che i fedeli meno giovani ricordano nelle Messe di un tempo, l'apertura del tabernacolo nel quale il celebrante teneva sotto chiave calici e ostie per la Consacrazione.
Qualcosa, alla tirannide della "globalizzazione", il cardinale cileno Medina Estevez deve pur concedere, quando saluta con un'espressione dura "fratelli e sorelle, brothers and sisters, bruedern und schwestern, hermanos y hermanas" prima di fare l'annuncio. Ma neppure questi ammiccamenti alla modernità cambiano l'affresco stupendo della facciata che si macchia improvvisamente di puntolini rossi, dei 114 cardinali che si affollano piccini sui tre balconi accanto alla Loggia papale e finalmente ridono, scherzano, si additano l'un l'altro i gruppetti dei tifosi con le bandiere nazionali assiepati sotto e delusi perché il loro campione non ha vinto. Non
più principi della Chiesa, come li vidi aggrondati, massicci e sconvolti dal vento, ai funerali di Giovanni Paolo, appena dieci giorni or sono, piuttosto sollevati, come scolari dopo l'esame. E minuscoli, insignificanti, nell'arco dalla scala disumana dei finestroni sulla facciata.
Poi arriva Lui, l'atteso, il desiderato, il temuto, il Papa. Magnifico, nella stola di tutti i suoi predecessori ricamata con le immagini di Pietro, sotto la mozzetta rossa di seta sulle spalle, eretto, nonostante quei 78 anni che soltanto le dispettose inquadrature televisive alle spalle ci mostreranno un po' incurviti, da anziano, le mani giunte sopra la testa.
Era un gesto di vittoria quasi da sportivo, che il giro collo rosso alto di lana sotto la veste, come fosse il maglioncino di un giocatore impegnato in una notturna fredda, sottolinea. Comunica soltanto con gli occhi, che sembrano, nelle lenti mostruose dei teleobbiettivi, avere anche pianto, forse in quella "stanzetta della lacrime" alla sinistra dell'altare nella Sistina, dove lo hanno vestito nei 55 minuti tra il fumo del comignolo e l'apparizione. Sono occhi infossati, leggermente cerchiati, lo sguardo di chi legge e scrive molto, 700 opere filosofiche e teologiche, dicono le biografie. Non ha, visibilmente, una naturale comunicativa, non è un "grande comunicatore" alla Reagan o alla Clinton, non emana la simpatia popolare di Roncalli, la disarmante semplicità di Luciani nè la carica vitale di Wojtyla. Non commette neppure errori di grammatica, come quel mitico "mi corriggerete" che fece crollare istantaneamente ogni barriera linguistica tra il "Papa non Italiano" e la piazza romana. Il suo accento tagliente, quel suo "Ciovanni" invece di Giovanni non è un errore che possa intenerire la folla al primo incontro, è la sua pronuncia bavarese di un italiano prefetto che neppure una lunga vita a Roma ha potuto smussare del tutto.
Conto, per abitudine di cronista, la durata dell'applauso iniziale, 40 secondi, che poi diventeranno un minuto e mezzo dopo due pause e due riprese, il numero di battimani che interrompono il discorso della vigna, sette, come se questo fosse uno show o un congresso di partito. Finisce il suo breve ma bellissimo discorso, almeno nel parere di un ascoltatore come chi scrive senza presunzioni mistiche, ripulito da quelle asprezze da Sant'Uffizio della omelia nella "Missa pro Eligendo Papa", piene di espressioni di umiltà e di vulnerabilità, forse rituali, ma rasserenanti.
Tace, sotto lo sguardo dell'arcivescovo Marini, alla sua sinistra, che lo segue con l'espressione benevola, ma distante di chi, un paio di giorni or sono, vidi misurare con lo stesso sguardo la fossa vuota che attendeva la bara di Giovanni Paolo, nelle Grotte. E poi, prima della benedizione che annuncia in fretta, "e ora la benedizione", come se l'avesse dimenticata, e dopo il rito, piombano i commoventi momenti di silenzio, di tensione, almeno per noi parenti davanti alla "nurserie". Lui guarda noi senza vederci, e noi guardiamo lui cercando di capire, di immaginare che cosa sarà da grande, cioè da Papa.
Vorremmo che parlasse, che ci dicesse ancora qualcosa e i minuti del suo sorriso, teso come siamo tesi noi, sono attimi lunghissimi. Vorrebbe dirci ancora qualcosa? Ha paura di tradire di nuovo quella emozione che i teleobbiettivi hanno visto negli occhi cerchiati e infossati e che la voce spezzata al momento di pronunciare la parola "Filii", nel benedire il mondo "in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti" ha tradito? Qualcuno, nella piazza tornata a essere pubblico spietato, "audience", consumatori di eventi, e non più famiglia in trepidazione, gli volta le spalle e se ne va, annoto sul taccuino, mentre il silenzio di una conversazione muta che si
fatica a cominciare è strappato da un allarme che stride da un appartamento, o da un negozio scosso dalle vibrazioni, in Piazza Pio XII, petulante, volgare, inarrestabile. Aveva cominciato a piovere, nei minuti tra la fumata e l'annuncio, e le nubi che arrivavano sulla piazza dal sud est promettevano guai. Quando la finestra si è aperta, ha smesso.
Benedetto XVI, il Papa che ha assunto il nome del primo Pontefice che, dopo la fine del potere temporale, osò bollare senza mezzi termini la guerra e chiamarla per quello che è, un'"inutile strage", quel Benedetto XV che - come Ratzinger sa - riposa proprio davanti alla tomba di Wojtyla, è tornato dentro la protezione della sua basilica alle sette di sera. Non ha fatto né detto altro che congiungere ancora le mani davanti al viso, guardato da quelle mistiche levatrici soddisfatte in porpora rossa che lo avevano fatto nascere e che più tardi sarebbero andate a cena con lui, nell'ostello di Santa Marta, dove avevano vissuto insieme gli ultimi due giorni, ma non più da pari. La piazza dove la Chiesa Cattolica muore e risorge da mezzo
millennio, nella rappresentazione concreta e periodica del proprio messaggio religioso, si svuoterà in fretta, sbugiardando quei primi piani televisivi che inquadrano il gruppetto di esaltati sotto i riflettori.
Ci lascerà, con lo stupore di chi l'aveva vista appena 18 giorni or sono a un funerale e ne esce ora dopo un battesimo, l'immagine di quel cardinale schiacciato dal silenzio e dalla propria fama di uomo di ferro. Lo abbiamo visto, ma non lo abbiamo conosciuto, immobile e incerto accanto allo stesso bastone pastorale che fu messo sotto il braccio sinistro di Wojtyla nella composizione finale della salma. Resterà un mistero umano imprigionato nella propria introversione come un altro grande Papa, Paolo VI? Imparerà a camminare più spedito nelle colossali impronte "mediatiche" lasciate dal predecessore?
Rimango con l'impressione inspiegabile, con la superficiale sensazione di un cronista, che questo non sia affatto un uomo duro, ma un uomo spaventato dalla propria tenerezza, che si rifugia dentro il silenzio che lo avvolgerà questa sera, dopo le celebrazioni, le cene, le congratulazioni, le campane, quando la luce si spegnerà e rimarrà solo nel letto dove dormì il suo "Ciovanni".
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