benedettosedicesimo

4.21.2005

La vera modernità di Benedetto XVI

di Ernesto Galli della Loggia

Eleggendo Papa Joseph Ratzinger la Chiesa cattolica ha mostrato innanzitutto la sua vitalità storica e la sua collaudata sapienza in quanto corpo politico, sia pure di un tipo specialissimo. Posta infatti di fronte a una difficile successione, la sua suprema assemblea non ha ripiegato sul compromesso e sulle mezze misure. Essa ha tagliato con risolutezza il nodo mostrando cosa significhi un rapporto antico e consapevole con la dimensione della leadership. E ha scelto.
Ha scelto non già un arcigno conservatore o un occhiuto inquisitore: a dispetto di molti timori e di molti pregiudizi, Joseph Ratzinger non è questo. Egli è principalmente un testimone della nostra drammatica epocalità, l’uomo consapevole che—nella vampa infuocata dei tempi — interi universi storici, interi mondi antropologici e culturali che per secoli ci hanno plasmato, minacciano di venire annientati e di scomparire; e sente che, lungi dal corrispondere a un qualsiasi progresso, ciò apre solo la strada verso il nulla. Al pari di una parte significativa dell’élite intellettuale europea e americana che oggi sente in modo non dissimile, anche Ratzinger, negli anni Cinquanta e Sessanta, ha immaginato altri orizzonti che per quell’élite furono gli orizzonti dell’emancipazione sociale attraverso la rottura politica, per lui quelli del Concilio. Ma poi egli pure ha dovuto prendere atto delle dure repliche della storia e della mutata atmosfera dei tempi; e come altri egli pure ha avvertito il bisogno di sintesi e di pensieri nuovi sì, ma che fossero capaci innanzitutto di non perdere il legame con il passato e con ciò che ne deriva alla nostra identità.

È proprio nella comune riscoperta dell’essenzialità delle radici e della parte che in queste ha il retaggio giudaico-cristiano per la cultura laica, è il depositum fidei per quella religiosa, il senso dell’inaspettato riavvicinamento tra le due: riavvicinamento che costituisce uno dei grandi fermenti nuovi dei tempi che si annunciano o che forse già sono. L’intellettuale teologo Ratzinger, alimentato dalla grande tradizione di cultura della sua e della nostra Germania, è stato uno degli attori decisivi della riscoperta e del riavvicinamento che dicevo. La sua celebre conversazione con Jürgen Habermas, uno dei massimi pensatori laici contemporanei, sui grandi problemi della scienza e della trasmissione della vita, è destinata molto probabilmente a restare come una pagina altamente simbolica della vicenda intellettuale dei nostri anni.

Tra le convenzioni del discorso pubblico attuale c’è quella per cui chi non è disposto a disfarsi senza fiatare del passato e dei suoi valori sarebbe un nemico della modernità e dunque, alla fine, della felicità umana. Ma ogni giorno che passa il rapporto tra modernità e felicità diventa più ambiguo; troppo spesso ogni nesso tra le due sembra svanire e apparire inesistente. Batte insomma alla porta del nostro presente l’urgenza di una diversa modernità. Essere moderni, cioè liberi ed eguali, ma senza la tutela protettiva del potere e senza l’invasione ricattatoria della tecnica; essere moderni, cioè rendere effettivamente universale, ma senza passare attraverso scontri mondiali sanguinosi, «l’acquisto per sempre » di civiltà che storicamente questa parte del mondo ha fatto per sé e per ogni altro; essere moderni, ma senza rotture irreparabili e costruendo un nuovo senso del limite: ciò che vuol dire, anche, non poter non riconoscersi in una storia e in una memoria iniziate con un giovane ebreo in Palestina duemila anni fa, le quali aspettano oggi dall’intelligenza e dal cuore di Benedetto XVI l’impulso per restare nel nostro presente.