benedettosedicesimo

4.30.2005

Il tempo più favorevole

di Carlo Caviglione


Com'era facile prevedere, con gli elogi e le approvazioni, non sono mancate le prime critiche per il nuovo Papa. Frequente tra queste, è quella riguardante l'età. Per alcuni, Benedetto XVI sarebbe già troppo avanti negli anni per avere la possibilità e la capacità di guidare e di rinnovare la Chiesa. Sarebbe fin troppo facile rispondere con due osservazioni.
La prima: non sempre conta l'età, quanto la buona salute. È vero che il nuovo Pontefice ha attraversato, come tutti, qualche piccolo guaio, ma attualmente, l'abbiamo visto tutti, gode di ottima salute. La seconda: come si sa, oggi la vita media si è di molto allungata, tanto che dopo i settanta, non pochi uomini e donne continuano nella loro attività, anzi la arricchiscono della loro esperienza.
Per la serie dei Sommi Pontefici, si potrebbero poi indicare non pochi casi, in cui la longevità non ha assolutamente compromesso la fecondità del loro ministero. Basti pensare a Leone XIII, il Papa della prima Enciclica sociale e, più vicino a noi, Giovanni XIII, anche lui considerato troppo anziano e "Papa di transizione", mentre al contrario concepì e intraprese con coraggio il Concilio Vaticano II, stupendo la Chiesa e il mondo intero per la sua vitalità. La stessa Sacra Scrittura, in varie parti, Levitico e Proverbi, non solo esorta a rispettare la vecchiaia e a venerare la canizie, ma presenta non pochi anziani protagonisti della storia della salvezza. Nella sua stupenda lettera del primo ottobre 1999, indirizzata agli anziani, Giovanni Paolo II ricorda che "l'età avanzata trova nella Parola di Dio una grande considerazione, al punto che la longevità è vista come segno della benevolenza divina".
Anziani sono Abramo, che ha il privilegio dell'anzianità, e Sara, "la donna che vede il proprio corpo invecchiare, ma che sperimenta nel limite della carne, ormai sfiorita, la supplenza di Dio che supplisce all'umana insufficienza".
Anziano è Mosè, quando Dio gli affida la missione di far uscire il popolo eletto dall'Egitto. Le grandi opere che, per mandato del Signore egli compie, non occupano gli anni della sua giovinezza, ma della vecchiaia.
"Anche il Nuovo Testamento - aggiunge Papa Wojtyla - pervaso dalla luce di Cristo, annovera eloquenti figure di anziani". A cominciare da Elisabetta e Zaccaria, genitori di Giovanni il Battista e continuando con il vecchio Simeone e la profetessa Anna, ormai vedova. Anziano è Nicodemo, stimato componente del Sinedrio, che mette a disposizione del Crocifisso il suo sepolcro nuovo. E lo stesso Giovanni Paolo II si trova ad esclamare: "Quali confortanti testimonianze, queste! Ci ricordano che in ogni età il Signore chiede a ciascuno l'apporto dei propri talenti. Il servizio al Vangelo non è questione di età".
Del resto, lo stesso Papa Wojtyla ha dato un esempio alla Chiesa e al mondo di quanto sia stato fecondo l'ultimo periodo del suo ministero, pur nei limiti di una salute ormai compromessa. Come l'apostolo Pietro si trovò "ad essere condotto dove lui non voleva", seguendo gli ordini dei medici e offrendo tutte le sue sofferenze per il bene della Chiesa.
La vecchiaia, dunque, osserva ancora nella sua lettera Giovanni Paolo II, "si propone come 'tempo favorevole' per il compimento dell'umana avventura e rientra nel disegno divino, come tempo in cui tutto converge, per meglio cogliere il senso della vita e raggiungere la sapienza del cuore".
Tutti ci auguriamo che ciò avvenga anche per Benedetto XVI. Che questa parte del suo ministero, divenuto universale, sia proprio il "tempo più favorevole" della sua vita. E diventi per tutti noi propizia la sua guida amorevole, forte e sicura.

4.29.2005

Il campo e il sentiero

di Paolo Bustaffa


"Un uomo di coscienza è uno che non compra mai, a prezzo della rinuncia della verità, l'andar d'accordo, il benessere, il successo, la considerazione sociale e l'approvazione da parte dell'opinione pubblica dominante". È il card. Joseph Ratzinger a ricordarlo nell'intervento d'apertura della conferenza internazionale sulla coscienza, tenutosi a Orvieto nel 1994. Una riflessione e una scelta di vita che, appartenendo a credenti e non credenti, diventano un "luogo" di confronto e di ricerca aperto alle grandi questioni. In questo orizzonte, grazie al teologo Ratzinger, si è dipanato nel tempo un costante e affascinante dialogo tra fede e ragione in cui anche recentemente hanno preso la parola pensatori di diversa ispirazione. A Benedetto XVI sono sempre state familiari le "due ali" che Giovanni Paolo II ha posto al centro del suo magistero per dire a ogni uomo che dispiegandole insieme è possibile volare verso se stesso, verso gli altri, verso Dio. La coscienza è stata e rimane il terreno in cui il Papa ha messo e continuerà a mettere il seme della verità, è il suo "campo preferito": qui lo incontreremo frequentemente.
Già nei primissimi suoi interventi papali si è colto l'appello al risveglio della coscienza perché la riscoperta di questa altissima dignità consentirà alla cultura, in particolare a quella occidentale, di uscire da un'eclissi che dura da molto tempo. A fondamento di questo richiamo è il Concilio Vaticano II a cui Benedetto XVI, sorprendendo più d'uno, si è riferito con insistenza. "La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo dove egli è solo con Dio. Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi ma alla quale deve invece obbedire. Questa voce che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa' questo, evita quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato". Il Concilio, in questo passo della "Gaudium et spes", uno dei grandi inni alla coscienza, ricorda che la scintilla della verità è dentro ogni essere umano e va custodita con cura perché non si spenga.
Custodire non è, dunque, conservare. Benedetto XVI, "custode della fede", lo afferma con chiarezza. Il custode non è il conservatore. Il primo ha parole e gesti di speranza e di fiducia, il secondo ha parole e gesti di paura e di sospetto. Il primo agisce per amore, il secondo per timore. Il primo nella pensosità è gioioso, il secondo nella seriosità è triste. È la passione per la verità, quella verità che rende liberi e, quindi, pienamente uomini, a distinguere l'uno dall'altro. Affascinante percorso quello della coscienza illuminata dalla fede, liberata da contraffazioni, manipolazioni e riduzioni. Benedetto XVI lo indica come strada maestra per giungere a Dio, per far nascere nell'uomo domande su Dio. Aggiunge che si tratta di un sentiero faticoso e stupendo, come tutti quelli che portano alla vetta.

Ora, un po' di silenzio

di Irene Argentiero


Un giorno d'estate, di qualche anno fa, il card. Ratzinger rimase molto sorpreso quando, nella chiesetta di Santo Spirito, piccola oasi dello spirito che si trova in cima alla Valle Aurina, una giovane coppia lo riconobbe e gli chiese di benedire la loro bimba.
Questo piccolo episodio che racconta il lato più "privato" del card. Ratzinger, mi è tornato in mente in queste ore, seguendo le immagini di Papa Benedetto XVI abbracciato dalla folla dei fedeli: i giovani in piazza scandiscono a gran voce "Benedetto, Benedetto" e invitano il nuovo Pontefice a non avere paura, la gente lo attende per seguirlo nelle sue prime uscite ufficiali.
Di Papa Benedetto XVI, o meglio del card. Joseph Ratzinger, alla vigilia del Conclave, durante il Conclave e dopo il Conclave si è detto tanto. Forse anche troppo.
Di questo uomo di Dio, chiamato ad assumersi il faticoso impegno di successore di Pietro, abbiamo letto e ascoltato in questi giorni davvero molto. Forse ora è arrivato il momento di lasciare un po' di spazio al silenzio.
Papa Benedetto XVI, che ama la musica, sa che nella musica le pause in cui gli strumenti tacciono sono indispensabili per far sì che l'armonia delle note sia più ricca e completa e raggiunga il suo significato più pieno. E allora proviamo, in silenzio, a chiudere gli occhi e ad ascoltare il suono armonioso del silenzio.
Un suono, che, stranamente si rende "visibile" attraverso le tante immagini che del card. Ratzinger, oggi Benedetto XVI, abbiamo visto scorrere davanti ai nostri occhi in questi giorni. Questo "servo della vigna del Signore", come lui stesso si è definito, che fino a pochi giorni fa vestiva di nero, con l'abito talare e la coppola in testa, oggi si ritrova vestito a nuovo, completamente immerso nel bianco di un abito, nel quale anche il colore dei suoi capelli sembra fondersi fino a perdersi. Sembra quasi di ripercorrere la tastiera di un pianoforte. E chi ha un po' di dimestichezza con la musica lo sa, in un pianoforte, i tasti bianchi sono molti di più di quelli neri. Così come molti di più, d'ora in avanti, saranno gli impegni che attenderanno il nuovo Papa.
Come servo obbediente, Joseph Ratzinger si è affidato nelle mani del Signore, lasciando al suo Santo Spirito il compito di suonare la nuova e impegnativa melodia, che d'ora in avanti sarà scritta sullo spartito della sua vita.
E il pensiero, a questo punto, ritorna a quella chiesetta in cima alla Valle Aurina, dedicata allo Spirito Santo, alla quale si giunge attraverso un sentiero di meditazione particolare, realizzato 25 anni fa con la collaborazione dei giovani della zona: una "Via Crucis" in cui si parla anche delle forme in cui il male ancora oggi continua ad aprire ferite nella vita delle persone.
È in mezzo a queste difficoltà e fatiche che oggi, Papa Benedetto XVI, con i suoi carismi e la sua unicità, è chiamato a indicare al mondo intero la luce del Cristo Risorto, di un Gesù che vince con il Bene e con la forza inesauribile dell'Amore ogni male e ogni contrapposizione, un Gesù che supera preconcetti e pregiudizi per andare diritto alla meta: la salvezza di ogni uomo e donna.
È lungo le tante "Viae Crucis" dei giorni nostri che Papa Benedetto XVI è stato chiamato da Dio a guidare la Chiesa, come un pastore e un padre premuroso, attento ai bisogni e alle necessità di chi gli è stato affidato.

4.28.2005

Porterà anche noi

Di Cristiana Dobner

Un interrogativo, spesso attraversa o scuote le nostre giornate: lo Spirito Santo, chi è? È all'opera? La fede ci insegna che Egli ispira, guida e plasma la storia: come il vento, se lo stringi tra le dita, già più non c'è; se tenti di afferrarlo, ti sfugge.
Il nuovo Papa, Benedetto XVI, che ora possiamo fissare in volto ed imparare ad amare e servire, è un "dato", una "realtà", che lo Spirito ha forgiato.
Nessuno vuole negare le mediazioni umane, i giusti confronti, il soppesare la temperie storica e le personalità dei cardinali riuniti in Conclave (anche se è pur sempre possibile che un semplice battezzato divenga Papa!).
Tuttavia, rimane un dato che sfugge la presa, una realtà che non consente di essere stretta: lo Spirito che lo ha indicato. Questi e non un altro, con pari o magari superiori qualità e capacità, è Colui che ora noi riconosciamo come il Pastore che ci guiderà nell'incontro con il Padre e i fratelli.
Se non ci lasciamo sfiorare dall'emotività, ma apriamo il nostro cuore all'accoglienza di fede, questo nostro fratello in umanità, ci insegnerà come amare Dio sopra ogni cosa, come vedere in ogni fratello e sorella, lo stesso Dio.
Joseph Ratzinger è a noi noto, ancora riecheggia nel nostro animo il sermone in cui ha commemorato Giovanni Paolo II e quel gesto con cui ha indicato quella finestra.
Ora là, noi lo vedremo affacciarsi per chinarsi su di noi che gli chiederemo di muovere i passi insieme, perché certi che lo Spirito a lui dona di comprendere questo nostro travagliato tempo per portarlo, con gioia, al Padre. Da Benedetto XVI riceveremo la forza e la tenerezza dello Spirito per camminare insieme a tutti sulla via che porta al Padre; per lui, che ha accettato con generosità, in autentica obbedienza alla Parola, un ruolo nella vita della Chiesa e dell'umanità che gli richiederà di perdere tutto se stesso, imploriamo il fuoco dello Spirito e la tenerezza della Madre, perché lo soccorrano, oggi e per tutti i giorni che lo vedranno Vicario di Cristo per i cristiani e luce di amore per tutti gli uomini e le donne.
Quella finestra da pochi giorni vuota, sembra molto lontana nel tempo, Giovanni Paolo II è ancora vivo, presente fra di noi e sta scortando Benedetto XVI che, da quella finestra, prenderà a volo il filo dell'annuncio e lo getterà a tutti noi.
Non sappiamo quali traiettorie solcheranno gli anni a venire, ci saranno dolori e fatiche, gioie e tribolazioni, il volto però del Papa sarà un richiamo vivo, della vita dello Spirito, per indicarci la giusta direzione, per portarci là dove Dio vuole che tutti noi si giunga.
Per questo Papa, tutta la Chiesa e tutto il mondo, divengono patria da amare; non sapremo mai quale dedizione abbia richiesto a questo volto sorridente rispondere a un carico così grave; sappiamo però che, nel nome di Cristo, ha osato rispondere: Sì, ti seguo, dovunque mi porterai! E con Lui, Benedetto XVI porterà anche noi.

4.27.2005

Benedetto con timore

di Leonardo Boff

La nomina a papa del cardinale Joseph Ratzinger ha provocato soddisfazione in alcuni e preoccupazione in altri. Le preoccupazioni si devono a due fattori: al suo modo di governare la chiesa e alla sua posizione rispetto a un mondo multiculturale in cui oggi viviamo. Come capo della congregazione della dottrina della fede per più diventi anni e nella sua omelia ai cardinali prima di entrare nel conclave, Benedetto XVI ha detto chiaramente che continuerà la stessa linea del suo predecessore. Se il suo stile di governo sarà accentratore come prima, corriamo il rischio di identificare la chiesa con il papa. Se di fronte al mondo il suo atteggiamento sarà la pura e sempliceaffermazione dell'ortodossia in opposizione alle tendenze del pluralismo culturale, la chiesa corre il rischio di identificare Roma con il mondo e di rendere sempre più conservatrice e mediocre l'intelligenza cristiana.

Se in effetti si affermerà la centralizzazione, verrà limitata la creatività delle chiese locali che hanno bisogno di libertà per coniugare - di fronte alla massa sofferente dei fedeli - la fede con la giustizia e la missione sociale con la liberazione, e l'evangelizzazione sarà trasformata in alienazione. In questo caso, crescerà l'emigrazione dei fedeli verso altre chiese. Questa situazione riguarda tutto il Terzo mondo, dove si trova più della metà dei cattolici.

Se vincerà la volontà di scontro con la modernità e la post-modernità, prevedo conseguenze negative per il futuro della chiesa. Essendo molto tradizionalista, Benedetto XVI deve sapere che questa strategia è profondamente sfibrante per la chiesa. Nel passato, i movimenti di liberazione a favore degli oppressi sono stati privati della collaborazione di quei cristiani che avrebbero potuto influenzarli con i loro valori, invece di renderli più alienati e infantili. La stessa chiesa è arrivata in ritardo ovunque, persino per la firma della Carta dei diritti umani. Una chiesa che si propone di tornare ai modelli del passato diventa immobile come un fossile. Una chiesa conformista non porta a termine la sua missione religiosa di educare i cristiani ai nuovi tempi. Al contrario li indottrina, facendoli diventare immaturi quanto a fede, papisti infantili, adulatori come tanti.

Una volta sollevate, queste questioni non potranno essere tacitate senza che si arrivi a una resa dei conti. Si è effettuato un cambiamento durante il Concilio Vaticano II, ma Giovanni Paolo II e il cardinale Ratzinger hanno poi reinterpretato questa svolta in modo tale da svuotarla di ogni significato. La lotta frontale al posto del dialogo richiude in sé un errore teologico, oltre a un equivoco strategico. Il Vaticano II ha insegnato che nel dialogo tra filosofie e correnti ideologiche si devono, in primo luogo, individuare gli elementi illuminanti, da qualsiasi parte essi provengano - da Marx, da Freud o da Lyotard - perché se sono veri è come se venissero da Dio. Affermare, come il documento Dominus Jesus del cardinale Ratzinger, che solo la chiesa cattolica è la Chiesa di Dio e che le altre hanno a stento alcuni elementi ecclesiastici è distruttivo. Così come lo è affermare che i seguaci di queste altre chiese corrono un grave rischio di perdizione perché si trovano fuori dalla chiesa cattolica. Questo non è dialogare ma insultare, e la cordialità vuole solo rendere più facile la conversione. Tutto ciò è ingannevole e indegno.

Io credo ai miracoli. Che Benedetto XVI torni a essere il teologo che ho apprezzato e che suscitava speranza, non paura.

Per una fede “adulta”

di Marcello Semeraro
vescovo di Albano
curatore della voce “Ratzinger” per il “Dizionario dei teologi” (Piemme 1998)


Il profilo teologico di Joseph Ratzinger può essere descritto distinguendo due momenti, distinti certamente e, tuttavia, in coerente continuità: quello della sua ricerca teologica e della sua docenza in facoltà teologiche, anzitutto, a cominciare da Frisinga e l'altra fase della sua vita avviata con la nomina, fatta da Paolo VI, ad arcivescovo di Monaco e al Collegio cardinalizio. Con questa nomina, egli passerà dalla cattedra "magistrale" a quella "pastorale".
La responsabilità di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede prolungherà questo secondo momento sino ad oggi, mentre sta per avere inizio per la sua "esistenza teologica" la nuova fase di un magistero quale successore di Pietro. Considerando globalmente la produzione teologica di Joseph Ratzinger, ritengo che alcune tematiche debbano ritenersi come privilegiate.
La prima tematica è certamente quella ecclesiologica. Tra le principali opere sull'argomento, difatti, c'è "Popolo e Casa di Dio nella dottrina della Chiesa di Sant'Agostino", pubblicata nel 1954.
Altri suoi saggi ecclesiologici sono, poi, stati raccolti sotto questa medesima nozione ecclesiologica, un argomento su cui Ratzinger è poi tornato più volte, anche in atteggiamento critico riguardo ad alcune tendenze teologiche; riconoscendone, cioè, le possibilità, ma pure i rischi che potrebbero derivarle in determinati contesti culturali. Un tema ecclesiologico privilegiato, sul quale egli si è molto impegnato come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, è quello della comunione. Altri ambiti ai quali Joseph Ratzinger ha rivolto la sua attenzione sono la teologia in quanto "scienza della fede", la storia del dogma e la teologia della storia. In proposito si potrebbe richiamare un'altra grande sua opera, del 1959: "La teologia della storia in San Bonaventura".
Nei nomi di Sant'Agostino e di San Bonaventura possono pure essere individuate alcune direttrici non solo d'impostazione teologica, ma anche di configurazione spirituale. Ratzinger ha, poi, pubblicato altri volumi e saggi su temi particolari dell'ecclesiologia, come la teologia dell'episcopato e del primato, o della teologia fondamentale.
Negli ultimi anni, infine, sono stati raccolti e pubblicati molti saggi teologici su vari argomenti, fra cui la teologia liturgica, l'analisi della modernità… Quanto alla produzione teologica non tralascerei di ricordare un saggio, breve, ma denso, di mariologia intitolato "La Figlia di Sion", del 1977, e un'esposizione sistematica di escatologia, anch'essa del 1977.
Fra tutte, però, vorrei espressamente citare un'opera di Joseph Ratzinger che ha avuto ampia diffusione anche in traduzione italiana ed è a me molto cara. Il suo titolo è "Introduzione al cristianesimo" (1968). Frutto del suo insegnamento tubingese, quest'opera aveva la dichiarata intenzione di aiutare la comprensione della fede, presentandola come aiuto all'autentico vivere umano nel mondo contemporaneo, spiegandola e interpretandola senza, però, svenderla riducendola "ad un vuoto chiacchiericcio che stenta faticosamente a mascherare un totale vuoto spirituale". Il ricordo di quest'opera è sorto quasi spontaneamente nella mia mente sentendo l'omelia pronunciata dal card. Ratzinger nella messa "pro eligendo Pontifice". I media si sono per lo più concentrati sui rapidi, ma energici passaggi dedicati all'impostazione culturale del momento, cioè laddove si tratta del relativismo bandito come "unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni".
Sono temi su cui anche avvertiti filosofi e sociologi fermano l'attenzione. Fra questi ultimi penso, fra tutti, a Zygmunt Bauman e alle sue tesi sulla modernità liquida e sulla modernizzazione quale prolifica e incontrollata produzione di rifiuti e di esseri umani da scarto.
Non tutti, però, hanno aggiunto che dopo quest'analisi l'omelia del card. Ratzinger si è allargata sui temi della fede "adulta" perché radicata nella carità, nell'amicizia con Dio; soprattutto si è concentrata su Cristo, Figlio di Dio e vero uomo, "misura del vero umanesimo", e sul binomio "verità e carità" che trova il suo punto di coincidenza in Cristo. Trovo in questi accenni una corrispondenza con quanto il Ratzinger, teologo oramai maturo, scriveva nelle pagine iniziali di "Introduzione al Cristianesimo", quando si interrogava sulla possibilità di credere nel mondo attuale, sulla trasvolata della fede, sulle rotte del pensiero contemporaneo, sulla modalità cristiana della fede come assenso a Colui che è senso della vita.
Sono i medesimi temi toccati dal card. Ratzinger nella seconda parte della sua omelia, che si conclude con l'invocazione al Signore per la Chiesa di un nuovo pastore che "guidi alla conoscenza di Cristo, al suo amore, alla vera gioia". Queste parole possiamo rileggerle oggi, una volta che Joseph Ratzinger ha assunto il nome di Benedetto XVI come un primo progetto pastorale del nuovo Papa

La vigna di Benedetto XVI e il sacrificio

di GIAN PAOLO BONANI

Definendosi «umile lavoratore nella vigna del Signore», il nuovo Pastore di Roma non ha usato un'immagine scontata di semplicità e fatica. Chi ha meditato sul significato della parola e della rappresentazione della vite nella tradizione religiosa, biblica e cristiana sa che citando il lavoro di vignaiolo il Papa appena prescelto ha assunto tutti i rischi, stimolanti forse, ma pericolosi della missione del cristiano. Cosa sia la vite nel pensiero evangelico lo ha spiegato lo stesso Cristo, citato nel vangelo di Giovanni. «Io sono la vite, dice, e il Padre mio è l'agricoltore». Lavorare alla vite del Signore, dunque significa operare sul corpo di Cristo, come fa il sacerdote chiamato ogni giorno ad evocarlo nel rito eucaristico. Come fa ogni teologo che continuamente indaga sul mistero per rendere più evidenti e trasmissibili le verità di fede. Come fa ogni pastore che interviene a favore della propria comunità che è corpo di Cristo e che come tale va curata. «Io sono la vite, ribadisce il vangelo giovanneo, e voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui questi porta molto frutto». Il Papa vignaiolo si propone una missione apostolica a tutto campo. La vite è la pianta della Chiesa e la cura è affidata a tutti coloro che credono. I pastori riconosciuti dedicano l'intera propria energia a svolgere l'opera del buon vignaiolo. Il terreno per l'impianto della vite va pulito e sarchiato. Vanno eliminate tutte le piante inutili e concorrenti al messaggio del Cristo. Questo è compito di chi studia, approfondisce e trasmette la dottrina. Il terreno vergine per l'impianto è l'anima dei potenziali credenti che deve essere preparata alla comprensione del messaggio divino. Le barbatelle vanno piantate a giusta profondità, concimate e irrigate. L'assistenza spirituale, la comunicazione della dottrina, la conferma della fede attraverso i riti: questo è il compito costante, attento e assiduo del sacerdote lavoratore della vigna cristiana. La pianta che cresce e si estende va sostenuta con adeguati puntelli. «Educazione» prende il significato da questo educere, «tirare fuori sostenendo» che è l'azione di tutti i veri maestri. Benedetto XVI è studioso e insegnante e ha visto la parte di vigna fino a ieri affidatagli estendersi nel tempo. Pastore universale vede la sua missione oggi nell'universalizzazione di questo processo. Per ottenere questo risultato al vignaiolo occorre anche qualche intervento deciso. La sanità della pianta richiede attenzione e recisioni. Lo sviluppo dei tralci non può essere indeterminato e debole. D'altro canto è lo stesso Cristo che ha definito il limite e le opportunità: «Ogni tralcio che in me non porta frutto, il Padre lo recide e pota quello che porta frutto, affinché porti più frutti». Come nella visione d'Israele del profeta Osea, il Papa vuole vedere la chiesa «come una vigna lussureggiante, carica di frutti» un albero che «quanto più ha frutti abbondanti tanto più moltiplica i suoi altari». La vigna è un luogo di vocazioni e di ricerca proselitistica dunque alla quale il Papa non può sfuggire per la sua stessa vocazione di inviato di Dio. La vigna è tutto e non può essere scambiata con altro bene o potenza di questo mondo. Nello stupendo apologo di Giotam, riportato nelle pagine bibliche dei Giudici, gli alberi si rivolgono alla vite e le dicono: Vieni tu e regna su di noi. Ma la vite risponde: Posso io lasciare il mio vino che rallegra gli dei e gli uomini per dondolarmi sopra gli altri alberi?». La missione della salvezza cristiana è unica e assoluta. Il Papa non può essere tentato di potere temporale, ma neppure la Chiesa come vigna di Cristo può darsi compiti che non siano quelli della salvezza dell'anima di ogni credente in Cristo. La vite è il luogo di incontro alla quale il cristiano, a cominciare dal Papa, deve essere legato in piena umiltà e dedizione. Nella Genesi è profetizzato che lo scettro non sarebbe stato tolto da Giuda finché non fosse venuto «colui al quale lo scettro appartiene e a cui i popoli dovranno obbedire. Egli lega alla vite il suo asinello, a generosa vite il puledro dell'asina sua. Egli lava nel vino il suo vestito e nel sangue dell'uva il suo mantello». Il libro dell'Origine mette in chiaro il vincolo del cristiano all'albero Redentore e spiega che la Redenzione sarà sacrificio. Vino e sangue dell'uva sono la figura della Passione di Gesù che si compie a salvaguardia della vigna. Ogni cristiano è legato all'albero della vita come un docile asinello, operoso e duro nel suo andare, un'immagine questa cara a molti mistici moderni, fra i quali Kolbe, Padre Pio, Escrivà e a Giovanni Paolo II. Leggendo le parole della Bibbia appare più chiaro il perché dell'associazione costante nell'iconografia cristiana della vite e della croce. L'Ampelos pagano di origini dionisiache si tramuta nel simbolo della gioia e del sacrificio dell'Agnello nell'Apocalisse di Giovanni. La vigna è il luogo dove il Padre agricoltore manda gli operai promettendo giusta ricompensa e senza fare distinzioni, dice Matteo, fra quanti arrivano di prim'ora e quanti all'ultima. La parabola offre una vista sull'importanza dei rapporti fra la vite-Chiesa e quanti non conoscono ancora Cristo e il Vangelo, i nuovi «gentili» ai quali la catechesi di Benedetto XVI intende dirigersi fin dal subito. A chi si vuole avvicinare al Vangelo non viene fatta promessa di benessere e felicità gratuita. Viene invece richiesto impegno e rigore e dunque adesione convinta ai principi della fede. L'impegno è, per tutti, di essere «lavoratori» produttivi e sinceri. Nel vangelo di Matteo è narrata un'altra parabola di Cristo che chiarisce il rischio di chi si dedica alla promozione della vite vera, il regno di Dio. Aderendo al messaggio senza fedeltà ci si può tramutare in operai corrotti, vignaioli perfidi che dopo aver maltrattato gli inviati del Signore, ne uccidono addirittura il Figlio. Quando Benedetto XVI si presenta come umile lavoratore della vigna non parla solo di comodo o faticoso lavoro, ma allude invece a due rischi evidenti: quello di poter essere infedele ai compiti necessari per coltivare la vigna-Corpo di Cristo e quello di poter essere vittima dell'adempimento del messaggio del Padre. Come non leggere in questo apologo fondamentale scelto da Benedetto XVI, oltre che una codifica del mandato papale nel suo significato più alto, anche una rilettura della vicenda storica di Giovanni Paolo II, braccato spesso dall'invidia di massmedia ostili e fisicamente soggetto ad imboscate da parte dei servitori di questo mondo? Nel lavorare alla vigna, come dimostrano i tanti martiri della Chiesa in tutti i tempi, la vita viene messa in gioco e non vi è fede reale se essa non passa in secondo piano rispetto all'accettazione della croce. Tralci e pampini, corredati da grappoli ubertosi sono sospesi ai bracci dello strumento della Passione: solo lì sembrano poter dare il frutto che la vocazione cristiana, del pastore e del laico, richiede e promette. Da ultimo occorre ricordare che non vi è neppure distanza fra le parole del Papa sulla vigna e quelle pronunciate per il suo affidamento alle mani della Madonna. La Madre di Gesù, Colei che secondo la liturgia etiopica «produce nel suo seno il frutto dell'oblazione», viene salutata dai padri bizantini con questo elogio: «Salve, o vera vite che hai prodotto il grappolo maturo da cui è stillato il vino che rallegra le anime di quanti con fede ti glorificano». Ecco che essere lavoratori della vigna è incontrarsi necessariamente con Maria, che la tradizione di Gerusalemme ha sempre conosciuto come Terra Vergine entro cui ha radicato l'Albero della vita. «Da te è uscito il grappolo che doveva essere spremuto sotto il torchio della croce», dice San Pier Damiani. Lavorare nella vigna, per Benedetto XVI, è sì proclamare il rischio sostantivo, l'aut-aut kierkegaardiano della vita di fede, ma è insieme affidarsi alla fiduciosa misericordia dell'andare a Cristo per Maria.

4.26.2005

I deserti del tempo reclamano il Pastore

di Elio Maraone

«In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto...». Imperiosa, toccante, come è per molte delle nostre prime letture, l’immagine dell’araldo che – racconta Matteo – precede Gesù e grida «Convertitevi» balza davanti a noi «in questi giorni così intensi» (parola di nuovo Papa), e con scoperta passione vissuti da Benedetto XVI: nell’omelia sul sagrato della Basilica, che egli tiene sotto il peso dolce e tremendo del pallio petrino, Joseph Ratzinger ricorre ancora una volta – la prima da Papa – alla figura del deserto. Il deserto può essere il luogo della purificazione e dell’ascesi (lo è stato per Israele nel suo peregrinare e per molti Padri), ma è anche il luogo della desolazione, del nulla.

Non un albero, un muro, una casa, una città rumorosa impediscono, a chi lo voglia, la contemplazione dei cieli e l’ascolto della «voce che –secondo Isaia, citato da Matteo – grida nel deserto». Ma purtroppo, per i ciechi e sordi nel cuore, il deserto diventa sinonimo di paura e di sperdimento, occasione di tentazioni come quando – è sempre Matteo che racconta – «Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo».

Il Papa in un passaggio centrale dell’omelia di ieri non nomina espressamente il diavolo (cioè, letteralmente, «colui che divide» gli uomini dagli uomini, e questi da Dio), però osserva, con dolore venato di sgomento, il risultato della sua opera: «... vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo».

E, ancora, in un passo che va sottolineato, il Papa osserva: «I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo perché i deserti interiori sono diventati così ampi». Il deserto – interiore ed esteriore – può anche fiorire, ma a patto che l’uomo lo voglia, che sappia colmarne i dislivelli, allontanarne le pietre ingombranti, portarvi la buona acqua della fratellanza invece del sangue sparso (è un fatto almeno curioso che le guerre più recenti si siano svolte e si svolgano in regioni desertiche).

Tuttavia, annota Benedetto XVI, «i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione». Parole amare, parole severe, specialmente le ultime, ma che non sono affatto un segno di resa perché «la Chiesa nel suo insieme, ed i pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto.... verso Colui che ci dona la vita». La Chiesa stessa «è viva», ha detto e ripetuto il Papa all’inizio dell’omelia, «perché Cristo è vivo», e «la Chiesa è giovane».

Giovane e viva insomma anche nel deserto contemporaneo: come uno stupendo sempreverde, come una sorgente inestinguibile, come, dice il Papa, «il pastore che cerca nel deserto» la pecorella smarrita, ossia l’umanità. Anche il pastore di oggi (e qui, ci sembra, affiorano una vena autobiografica e un tremendo impegno personale) deve essere animato dalla «santa inquietudine di Cristo» pastore: e dunque possiamo dire che il Papa, dopo aver indossato la lana d’agnello del pallio che rappresenta anche la pecorella smarrita e comunque debole, nella traversata del deserto è pronto a caricarsi tutti noi sulle spalle. Ma questo non vuol dire che la sua fatica debba restare isolata: noi tutti siamo infatti invitati ad alleviare quel carico, a «portarci l’un l’altro».

Un sorriso senza effetti speciali

di MARIO MORCELLINI

Nel clima di attesa che si è creato attorno al nuovo Papa, i media informativi si sono concentrati sullo stile comunicativo, scrutando impazientemente i segni distintivi e l’identikit del Pontefice appena eletto. E’ difficile negare che sia sotto osservazione, ed ancor più da parte delle telecamere e dei teleschermi piuttosto che della gente. Anzi, se un’evidenza comincia ad emergere in un campione così ristretto e problematico di giorni, è che le folle di fedeli si sono già schierate con lui, senza darsi la pena di aspettare il risultato dell’esame.
Del resto, è difficile negare che Ratzinger parta con l’handicap. Come chiunque altro e persino di più, grazie alle etichette ed alle semplificazioni che nel tempo si sono stratificate attorno alla sua immagine, ridimensionandosi peraltro negli ultimi mesi. L’handicap è ovviamente dato dal confronto istintivo con Giovanni Paolo II e con la sua inesauribile forza comunicativa: un confronto ingiustificato, perché la sua gestualità si era costruita ed accumulata negli anni e solo a posteriori si può dire che essa era intuibile a partire già dalla citatissima gag dal balcone delle benedizioni. Anche per Benedetto XVI, allora, non partiamo dal debutto che resta comunque un evento rappresentativo di un’altra identità comunicativa, chiarita ed emancipata nei giorni successivi fino a trovare il suo culmine espressivo più forte ed eloquente nella giornata di ieri. E’ un Papa che si caratterizza anzitutto per sobrietà di stile ed economia di gesti. Non sembra aver paura degli errori e delle esitazioni ma il suo portamento risulta ugualmente di grande impatto comunicativo.
Copre l’attesa delle parole e gli intervalli con il linguaggio del corpo e con un viso illuminato, che ricorda in modo singolare il celebre profilo di Federico Borromeo tracciato da uno che se ne intendeva come Alessandro Manzoni. Al di là delle “aperture” culturali del suo discorso di insediamento, Ratzinger non sembra ossessionato dagli “effetti speciali”, e soprattutto non ha fretta di gestire la geometrica potenza dei media. E tuttavia, già oggi la sua personalità comunicativa comincia a stagliarsi con un timbro singolare e spiccato, che crea una straordinaria sintonia con i fedeli determinando più che un bagno di folla, un vero e proprio bagno di comunione, ispirato alla stessa sorgente a cui sembrava attingere il suo predecessore.

4.25.2005

Il destino della Chiesa

di Fulvio Tessitore

L’elezione di un papa, del vescovo della Chiesa universale, è tal fatto che non può essere commentato cedendo all’emozione né riducendo tutto (come si va facendo in queste ore, con poche eccezioni) a questa o a quella conoscenza personale. Perciò non dirò nulla dell’impressione che, a me laico, hanno procurato i riti del conclave e la comparsa sulla loggia di San Pietro di Benedetto XVI. Allo stesso modo non ricorderò quando, nel 1994, per desiderio del cardinale Giordano, inaugurai l’anno accademico della facoltà teologica dell’Italia meridionale assieme all’allora cardinale Ratzinger.
Né riferirò del colloquio avuto con lui e di qualche successiva lettura dei suoi libri. No. L’elezione di un papa va commentata, fin dove se ne è capaci, con uno sforzo di oggettivazione, che è la condizione del tentativo di comprendere. Ebbene, sono convinto che l’elezione del teologo Ratzinger al soglio di Pietro rappresenti una svolta dalle inimmaginabili conseguenze. Mi sembra di ricordare (cercherò di trovare il luogo del mio ricordo) che, una volta, il cardinale Ratzinger ha detto che la Chiesa di Roma deve essere pronta anche a sfidare d’essere minoritaria pur di conservare la fedeltà alla sua fede universale. Il che, del resto, è stato ribadito nell’ammonimento della Via Crucis a far pulizia delle brutture entrate nella Chiesa. Sembra un paradosso, ma non lo è, perché quest’affermazione significa molte cose e importanti. La premessa è la sicurezza incrollabile che il destino della Chiesa di Roma e nella finale universilità della comunità dei redenti e nella definitiva condanna dei miscredenti, che non sono soltanto i credenti di altre religioni, ma anche e soprattutto quanti non sanno restare fedeli ai princìpi della Chiesa di Roma, pur facendone parte. Da qui la grande scelta del teologo Ratzinger, che recupera, dentro il quadro del restaurato Dio cosmogonico del Vecchio Testamento, la forza del Vangelo che va gridato dai tetti, senza preoccuparsi di chi e di quanti l’ascoltino. Insomma, la Chiesa di Benedetto XVI non sarà disposta ad ammiccamenti accattivanti, che mettano in discussione i suoi precetti tradizionali, costi quel che costi il farlo. Si chiuderà al moderno come ha già scritto Giovanni Paolo II nell’ultimo libro pubblicato sotto il suo segno. Sarà un grande insegnamento di fedeltà e di coerenza intellettuale. Ma sarà anche una drammatica e fin tragica chiusura alla modernità, in nome di un curioso equivoco sul significato del relativismo filosofico, erroneamente identificato con l’indifferentismo etico. Sta qui la irreperabile chiusura alla modernità, se è vero, com’è vero, che il principio di relatività è il valore fondante della scienza (basta pensare a Einstein) e della cultura (basta pensare all’esistenzialismo o allo storicismo) contemporanee... Tutto ciò comporterà certo la continuità di Benedetto XVI con Giovanni Paolo II sul piano dottrinale, che già il teologo Ratzinger, prefetto della Congregazione per la difesa della fede, aveva ispirato e governato. E però si normalizzerà definitivamente il Concilio ecumenico Vaticano II, con grande gioia dei neo-con, in vero un po’ ottusi (almeno i nostrani) al significato della evangelizzazione giovannea, che portò fuori del porto sicuro la navicella di Pietro, certo esponendola allo «sbattimento» dei venti e delle onde, ma facendone il simbolo di una rinnovata speranza per tutti gli uomini di buona volontà. Ma segnerà anche la profonda discontinuità del nuovo pontificato, perché annullerà (al di là delle forme ed apparenze) la straordinaria scelta comunicativa di Giovanni Paolo II, e lo si è visto subito, con il professorale, controllatissimo primo messaggio del Papa appena eletto, che non ha mirato per nulla a stabilire un contatto con le masse emozionate e plaudenti con ingenuo sentimento di entusiasmo, e ha indicato il luogo del suo magistero, la vigna del Signore. Non si tratta di discutere la semplicità, la pietà, la fede di Benedetto XVI. Si tratta di capire ch’egli lavorerà nella «vigna del Signore» per restaurare i sostegni della vite degli antichi dogmi avvizziti. Si aprirebbe ora un altro discorso e cioè la valutazione di questa scelta di fede. Ma questo significa uscire dallo sforzo di comprensione ed entrare nel mondo del giudizio. E questa non è la sede ed il tempo per farlo. Mi limito a due osservazioni. Come studioso, come intellettuale non posso che compiacermi per l’onestà intellettuale di chi non ha mai cercato compromessi, costi quel che costi questo rifiuto nell’immediato del tempo dinanzi alla certezza dell’eterno. Come uomo comune che sa che la forza della vita sta nella capacità e volontà di comprendere in sé il proprio tempo, non posso che nutrire angoscia, timore e tremore per il destino, nella Chiesa di Roma, della multiculturalità ed interculturalità che sono la cifra del nostro tempo, piaccia o dispiaccia, perché è così. Fulvio Tessitore

Compromesso. Ortodossia e collegialità

di Giorgio Tonini

Un papa di transizione e di devoluzione (e un ammiratore della socialdemocrazia)

Due mi parrebbero, a una primissima analisi, i significati evidenti nella scelta, da parte del Conclave, di Joseph Ratzinger a 264° successore di Pietro: un significato interno alla Chiesa e uno relativo al suo ruolo nel mondo.
Il significato interno alla Chiesa è reso evidente dall’età del nuovo Papa: Ratzinger ha appena compiuto 78 anni. Li porta molto bene, sia nel fisico, sia (come è ancor più evidente) nella lucidità intellettuale. Ma anche senza voler porre limiti alla Divina Provvidenza, è normale pensare che i cardinali abbiano preferito far succedere, al lunghissimo regno di Giovanni Paolo II, un pontificato quantitativamente (il piano qualitativo è altra storia) "di transizione". In questa scelta, abbinata al profilo di Ratzinger, sembra di poter cogliere un progetto sulla Chiesa: fermezza sul piano dottrinale, abbinata a maggiore collegialità nel governo della cattolicità. Ratzinger sembra infatti la personalità che meglio può far incontrare entrambe queste esigenze: grazie al ruolo lungamente esercitato, a fianco di Papa Wojtyla, come difensore della fede, meglio di chiunque altro può rassicurare, sul piano dell’ortodossia, quanti temono una Chiesa alla deriva nel mondo; al tempo stesso, la sua notoriamente scarsa propensione al governo della macchina curiale, lascia immaginare una risposta di apertura alle istanze di maggiore collegialità, certamente della Curia romana (e questo non è detto che sarebbe un bene), ma forse anche dell’episcopato nel suo insieme, lungo una linea che potrebbe non lasciar cadere le richieste in tal senso avanzate, a nome di molte chiese locali, dal cardinal Martini.
Una delle possibili spiegazioni della rapida elezione, dopo tre sole fumate nere, potrebbe trovarsi proprio nel raggiunto compromesso ortodossia-collegialità con l’altra "grande anima" del Conclave. E l’understatement delle prime parole di Benedetto XVI sembrano confermare questa intenzione: «Dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice umile lavoratore nella vigna del Signore». Wojtyla non avrebbe mai detto «i signori cardinali mi hanno eletto», ma semmai «lo Spirito Santo ha voluto chiamarmi e chiedo a Maria santissima di aiutarmi a esserne degno...».
Il secondo significato riguarda il progetto di "Chiesa nel mondo" che traspare dalla scelta. Il Conclave ha deciso che dopo Wojtyla, il papa venuto dall’Est allora comunista, e prima di un papa del Terzo Mondo, ove ormai risiede la maggioranza dei cattolici, fosse necessario un passaggio di consolidamento delle radici europee della cristianità. E’ come se la Chiesa cattolica, nata nel Mediterraneo e poi identificatasi per un millennio con l’Europa, prima di lanciarsi appieno nella globalizzazione che la attraversa, prima di assumere, dall’America Latina, la guida del grande Sud del mondo, contendendola all’Islam, sentisse il bisogno di rafforzare le sue radici europee. E’ come se la Chiesa cattolica avvertisse che senza un dialogo ritrovato con l’Occidente secolarizzato, vana sarebbe la sua spinta oltre l’Occidente stesso. In fondo, questo è anche il paradosso che papa Benedetto XVI eredita dal suo grande predecessore: il paradosso di un Est europeo liberato eroicamente dall’oppressione comunista e che si è rapidamente abbandonato a una secolarizzazione assai più dura e radicale di quella della stessa Europa occidentale, per non parlare del Nordamerica. La scelta di Ratzinger, un europeo, uno dei più grandi pensatori europei viventi, equivale a dire che non può esserci evangelizzazione che non passi per la «discesa agli inferi» dentro e oltre la secolarizzazione, attraverso la cultura, la riflessione, il pensiero, il dialogo tra filosofia e teologia. La scelta del nome Benedetto sembra rinviare a questa visione: più che a Benedetto XV, il papa che condannò la prima guerra mondiale definendola una «inutile strage» (ma Ratzinger difficilmente può essere considerato un «pacifista») la scelta del nome sembra ispirata a san Benedetto, scelto da Paolo VI (Montini era intriso di spiritualità benedettina) come patrono d’Europa. Dunque Benedetto come prova delle «radici cristiane dell’Europa», ma (sembrerebbe) in uno spirito «montiniano»: perché quella benedettina non è una Chiesa combattente e crociata, è la Chiesa monastica del primato dell’interiorità e della spiritualità, è la Chiesa dell’ora et labora, dei monasteri dove si coltivava la terra, e si alimentava il dialogo tra la fede e la cultura, in tutte le sue dimensioni, anche quelle apparentemente più lontane.
Ultima notazione, che è obbligatorio richiamare al lettore del Riformista. Ratzinger è un grande ammiratore della socialdemocrazia, sia nella versione laburista, che in quella continentale. Nella famosa conferenza tenuta il 13 maggio dello scorso anno in Senato (e poi pubblicata nel libro dialogo con Pera), il futuro papa diceva: «Il socialismo democratico è stato in grado, a partire dal suo punto di partenza, di inserirsi all’interno dei due modelli esistenti, come un salutare contrappeso nei confronti delle posizioni liberali radicali, le ha arricchite e corrette. Esso si rivelò qui anche come qualcosa che andava al di là delle confessioni: in Inghilterra esso era il partito dei cattolici, che non potevano sentirsi a casa loro né nel campo protestante-conservatore, né in quello liberale. Anche nella Germania guglielmina il centro cattolico poteva sentirsi più vicino al socialismo democratico che alle forze conservatrici rigidamente prussiane e protestanti. In molte cose il socialismo democratico era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica, in ogni caso esso ha considerevolmente contribuito alla formazione di una coscienza sociale».

4.24.2005

Joseph Ratzinger

di Camillo Ruini
Scrivo queste righe sul nuovo Papa quando si è almeno un poco sedimentata in me l’emozione provata all’atto della sua elezione, e mentre siamo ancora in attesa dell’omelia che egli pronuncerà alla Messa per l’inizio solenne del suo ministero. Mi muovo dunque soltanto sulla scorta di ciò che il teologo e il cardinale Joseph Ratzinger finora ha detto, scritto, testimoniato nell’arco della sua intensa vita.

Una formula con la quale egli è stato a volte etichettato, a motivo del suo incarico di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, è quella di "custode dell’ortodossia": ogni opinionista almeno un poco attento ed informato sapeva però quanto questa formula per Joseph Ratzinger fosse inadeguata. Può essere comunque opportuno partire da essa per allargarla progressivamente e accostarsi così, per quanto possibile, alla realtà della sua persona.
Custode dell’ortodossia egli è stato certamente, nel senso di coraggioso difensore del contenuto di verità della fede. I suoi scritti, da Introduzione al cristianesimo del 1968, il primo che lo ha reso celebre in Italia, fino a Fede Verità Tolleranza, pubblicato nel 2003 direttamente in italiano, mostrano però che, già a livello dei contenuti, Joseph Ratzinger è teologo della tradizione viva, concepisce cioè il deposito della fede come un’eredità da far sempre fruttificare, in rapporto agli sviluppi e agli interrogativi che ciascuna stagione e situazione porta con sé: oggi specialmente a confronto con quella problematicità radicale che contesta ogni certezza di verità e ogni forza vincolante del bene morale, come pure con la tendenza a relativizzare Gesù Cristo dentro a un multiforme e poco definito universo religioso.

Per Joseph Ratzinger invece Gesù Cristo è "la misura del vero umanesimo", come ha detto nell’omelia di lunedì scorso alla Messa per l’elezione del nuovo Papa, e la fede in Cristo non è soltanto adesione intellettuale ma integrale scelta di vita. Perciò il custode dell’ortodossia è stato sempre, con la medesima passione, il sostenitore e il testimone della forza salvifica dell’amore cristiano: per lui la rivelazione del vero volto di Dio in Gesù Cristo ci chiama ad entrare in una nuova forma di vita, che scopre Dio nel prossimo e pertanto vede nell’altro il fratello.

Diventa facile comprendere, in questa prospettiva, come uno studioso così acuto e creativo sia sempre stato non soltanto fedele alla Chiesa, ma innamorato della Chiesa. Egli sa bene che proprio nella Chiesa si realizza in concreto una tale forma di vita. E più radicalmente che ciò è possibile, nonostante tutti i limiti umani, perché il mistero di Gesù Cristo e di Dio Padre è presente e opera nella Chiesa.

Questo è anche il motivo della straordinaria passione per la liturgia che ha sempre animato Joseph Ratzinger, come del suo amore per il raccoglimento e la preghiera: nella liturgia infatti, e soprattutto nell’Eucaristia, si attua, come dice il Concilio Vaticano II, l’opera della nostra redenzione, diventa cioè presente ed efficace il mistero della morte e risurrezione di Cristo.
L’amore autentico è fatalmente esigente, non rimane inerte di fronte ai pericoli che minacciano coloro che amiamo. Perciò l’amore del teologo e poi cardinale Ratzinger per la Chiesa e la liturgia lo ha spinto, e quasi costretto, a denunciare con sincerità e coraggio la "sporcizia", le storture, le chiusure anacronistiche o le aperture ingannatrici che ha visto presenti nella comunità cristiana. Ma queste denunce sono sempre state esclusivamente il frutto dell’amore, mai il sintomo di un distacco interiore o di una presunzione intellettuale.

La sera di martedì 19 aprile Joseph Ratzinger è apparso alla loggia di San Pietro vestito di bianco e si è definito "un semplice e umile lavoratore nella Vigna del Signore": il modo in cui egli aveva speso fino a quel momento tutta la sua vita è garanzia dell’autenticità di queste parole. Il Signore ha scelto infatti per continuare il servizio di Pietro, dopo il grandissimo e santo Papa Giovanni Paolo II, un uomo davvero semplice e umile, mite e gentile, che nello stesso tempo è stato fatto partecipe, in misura straordinaria, di quella luce del Verbo di Dio tramite la quale sono state create tutte le cose.

Il fascino della Chiesa di Roma

di Inos Biffi

Nei giorni in cui il nuovo vescovo di Roma, incomincia il suo ministero quale vicario di Pietro, vengono in mente alcune perspicue e ardenti parole di Ignazio di Antiochia e Ireneo di Lione, i due venerandi Padri, che ebbero la sorte fortunata di vedere e di ascoltare quanti avevano incontrato i discepoli degli apostoli.
Sono parole antiche, e pure non sorpassate, perché intramontabilmente entrate a far parte di quella tradizione di cui la Chiesa non cessa mai di vivere.

Esse ci riportano alla coscienza ecclesiale degli inizi, quando, a motivo dell’apostolo che era stato scelto come "Pietra", la sede romana già appariva in un suo ruolo singolare per la professione cristiana.

Ignazio di Antiochia, agli inizi del secolo secondo, salutava con fervore la comunità di Roma, come "la Chiesa che ha ricevuto misericordia dalla magnificenza del Padre altissimo e di Gesù Cristo suo unico Figlio; la Chiesa beneamata e illuminata dalla volontà di colui che ha voluto tutto ciò che esiste, secondo la sua fede e il suo amore per Gesù Cristo nostro Dio; la Chiesa che presiede nella regione dei Romani, degna di Dio, degna di onore, degna di essere chiamata beata […], che presiede alla carità": un’espressione quest’ultima che chiaramente allude a una preminenza di quella Chiesa, così eloquentemente elogiata in ciò che è essenziale, cioè la fede e la carità.

L’altra voce che è confortevole e suggestivo risentire è quella di Ireneo, vescovo di Lione, martire negli anni 202-203, proveniente dall’Asia, dove si era formato alla scuola di Policarpo "ammaestrato dagli Apostoli" e "in consuetudine con molti che avevano visto il Signore".

Nel libro "Contro le eresie" – la prima grande e splendida somma del Credo cristiano – l’elogio e la considerazione della singolarità della Chiesa di Roma sono ancora più espliciti e decisivi per la fede e la verifica della sua autenticità.

Questa fede è vivente e visibile nella "tradizione che viene dagli Apostoli", che è possibile reperire e constatare nelle Chiese contrassegnate dalla successione apostolica. "Ma poiché – egli scrive – sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo. Con questa Chiesa, in ragione della sua origine più eccellente, deve necessariamente essere d’accordo ogni Chiesa".

Non siamo certo di fronte a una definizione del primato della Chiesa di Roma e del suo vescovo nei termini e nel linguaggio che saranno delle epoche seguenti e della riflessione successiva. E tuttavia, vengono da Ireneo rilevate in modo speciale, quali prerogative distintive di tale Chiesa, la grandezza, l’antichità, la notorietà e la fondazione petrina e paolina: prerogative, d’altronde, enunziate in ordine non a un onore ma al criterio e alla garanzia della tradizione della verità cristiana.
Un dissenso con tale Chiesa comprometterebbe la comunione della fede.

La storia, nella complessità delle sue non raramente tribolate e aspre vicissitudini, ha poi variamente e forse non sempre felicemente espresso questa "principalità", la quale però non può in alcun caso cadere dalla coscienza e dalla prassi della Chiesa che Gesù Cristo ha istituito, fondandola sulla roccia – appunto – che è Pietro.
L’intenzione profonda della definizione, al Concilio Vaticano I, del primato di Pietro – e, a precise e rigorose condizioni, dell’infallibilità del magistero del vescovo di Roma – non poté che essere la fedeltà a questa stessa coscienza ecclesiale, trasparente al principio della Chiesa nelle preziose testimonianze del mistico Ignazio e del magnifico Ireneo.

Benedetto levatore di civiltà

di Maria Pia Alberzoni

«Benedetto, leggendo i segni dei tempi, vide che era necessario realizzare il programma radicale della santità evangelica (…) in una forma ordinaria, nelle dimensioni della vita quotidiana di tutti gli uomini. Era necessario che l’eroico diventasse normale, quotidiano, e che il normale, quotidiano, diventasse eroico. In questo modo egli, padre dei monaci, legislatore della vita monastica in occidente, divenne anche indirettamente il pioniere di una nuova civiltà. (…) Bisogna ammirare la semplicità di tale programma, e nello stesso tempo la sua universalità. Si può dire che quel programma ha contribuito alla cristianizzazione dei nuovi popoli del continente europeo e nello stesso tempo si è trovato anche alle basi della loro storia nazionale, di una storia che conta più di un millennio. In questo modo san Benedetto divenne il patrono d’Europa nel corso dei secoli: molto prima di essere proclamato tale da Papa Paolo VI».
Le parole pronunciate da Giovanni Paolo II nell’omelia della messa celebrata a Norcia, il 23 marzo 1980, durante la sua visita celebrativa del XV centenario della nascita di san Benedetto, sintetizzano mirabilmente il progetto di vita realizzato dal santo e il suo apporto alla storia d’Europa.

È indubbio il contributo che la capillare presenza di monasteri nelle regioni europee ebbe nel ridisegnare il volto del continente. Ma chi era colui che a ragione è indicato come il padre del monachesimo occidentale? Dopo aver vissuto come eremita a Subiaco, assunse la guida di alcune comunità su richiesta dei monaci che vivevano nei dintorni, finché attorno al 530 decise di trasferirsi a Montecassino dove diede avvio al nuovo monastero. Alla sua fondazione si collega l’avvio della stesura della Regola, che continuò fino alla morte, avvenuta attorno al 560.

Erano tempi difficili, quelli, soprattutto per la parte occidentale dell’impero romano: la penisola italiana era parte del regno di Teodorico, sovrano di grande cultura e aspirazioni, che si circondò di personaggi di altissimo livello culturale: basti ricordare il filosofo Severino Boezio e l’erudito Cassiodoro.

Un’epoca fatta di luci e di ombre, rispetto alla quale Benedetto non si sentì estraneo o sterilmente critico, ma a cui partecipò costruttivamente. Siamo informati dei suoi contatti – oltre che con monaci, abati e vescovi – anche con il re degli Ostrogoti Totila, il successore di Teodorico. Benedetto conobbe pure le grandi difficoltà delle popolazioni italiche durante la guerra greco-gotica (535-553), che portò alla riconquista della penisola da parte dell’imperatore Giustiniano. In questo contesto si mise in gioco non tanto con un impegno politico o puramente intellettuale, ma con la fondazione di comunità monastiche dove si praticava innanzitutto uno stile di vita nuovo, fondato sul comune desiderio di seguire le orme di Cristo sotto la guida di un maestro, l’abate, il padre della comunità.

Fu un grande papa, Gregorio Magno (590-604), a tessere per primo gli elogi di Benedetto, dedicandogli il secondo libro dei suoi Dialoghi, ma è soprattutto la mirabile sintesi operata dal santo abate nella Regola e la profonda spiritualità che la sottende ciò che consente di conoscere i tratti salienti della sua figura. La Regola costituì il più noto e diffuso testo normativo della cristianità occidentale, con una diffusione capillare soprattutto nelle regioni occidentali del continente europeo dove si era verificato il fecondo incontro tra il mondo romano e quello germanico. Gli studi che si sono sviluppati a partire dalla metà del secolo scorso hanno permesso di precisare i problemi legati al rapporto tra la Regola di Benedetto e quella detta del maestro, un altro testo normativo dal quale Benedetto attinse abbondantemente, ma con una tale intelligenza e capacità di sintesi da riuscire del tutto innovatore.

La Regola annovera 73 capitoli che possono essere in tre grandi parti: il Prologo e i primi 7 capitoli trattano motivi di carattere spirituale della «scuola che educa al servizio di Dio», il monastero, al quale è preposto l’abate; nei capitoli 8-66 sono definiti i diversi uffici indispensabili a garantire l’ordinata vita della comunità monastica nei suoi vari aspetti; i capitoli 67-72 costituiscono probabilmente un’aggiunta suggeritagli dalla sua pluridecennale esperienza di abate; infine il capitolo 73, l’epilogo della Regola, chiarisce l’umile e fondamentale lavoro intrapreso da Benedetto: «Dunque, chiunque tu sia che ti affretti alla pratica celeste, attua, con l’aiuto di Cristo, questa regola minima, scritta per i principianti».
Il genio di Benedetto è dunque nel metodo con il quale ha operato la ricostruzione dell’umano, allora come oggi messo alla prova da difficoltà di diverso genere: la Regola è infatti finalizzata ad aiutare il monaco, inserito in una comunità, a conformarsi alla vita di Gesù.

Come efficacemente sintetizzò Giovanni Paolo II nella Grande preghiera per l’Italia e con l’Italia, composta in occasione della solenne concelebrazione con i vescovi italiani il 15 marzo 1994, il senso della cultura umana consiste nel fatto che «l’uomo trasforma il mondo trasformando se stesso. Questo è uno dei significati della vocazione benedettina».

Benedetto pose così le basi per l’attuazione di una reale comunità monastica, offrendo un contributo fondamentale all’elaborazione di una nuova civiltà, di una convivenza ordinata tra persone appartenenti a mondi e a culture diverse: nel monastero, infatti, non ci sono differenze tra gruppi etnici e culturali tra loro differenti, quali erano i romani e i germani.

La Regola era in primo luogo indirizzata a Montecassino, ma ben presto altri la presero a modello, all’inizio assai gradatamente, giacché essa rimaneva una tra le tante conosciute sia nella penisola italica sia nel resto d’Europa. A consacrare la sua importanza e a renderla codice normativo per eccellenza della vita monastica fu Benedetto di Aniane, un monaco vicino alla corte carolingia, che suggerì al figlio di Carlo Magno, Ludovico il Pio, di estenderne l’osservanza a tutti i monasteri dell’impero.

Grande fu il contributo del monachesimo sia per l’evangelizzazione di diverse regioni europee non ancora raggiunte dal cristianesimo – basti pensare a Colombano e Bonifacio, provenienti rispettivamente dall’Irlanda e dall’Inghilterra, o al monaco Agostino, inviato da Gregorio Magno presso gli Angli –, sia per la diffusione di uno stile di vita al quale siamo ancora per tanta parte debitori. Pensiamo solo a due aspetti concreti della cultura europea: la concezione del lavoro e l’organizzazione della giornata, fino agli usi alimentari.

Il capitolo 48 della Regola mette il lavoro, anche manuale, sullo stesso piano della preghiera, così che la giornata del monaco è regolata da queste due occupazioni: si introduce un principio decisamente nuovo, poiché il lavoro non è una maledizione, ma una via per giungere alla salvezza, come lo è la preghiera. Anche per quanto riguarda gli usi alimentari – la ritmicità dei pasti consumati in comune dall’intera famiglia, l’importanza del pane per l’alimentazione europea – è possibile notare l’importante influsso dell’ordinata vita monastica.

Se da una parte l’attuale Europa ha tanto timore a guardare alla sua storia con franchezza, senza lasciarsi condizionare da pregiudizi infondati che le impediscono di riconoscere le sue origini e di negare il significato profondo del suo apporto alla civiltà mondiale, dall’altra, come ricordava Ratzinger nel suo scambio epistolare con Marcello Pera, il nascere di una nuova linfa vitale per la nostra civiltà, che la aiuti a superare «l’odio di sé», può essere oggi realizzato da «luoghi di incontro che diventino lievito, e cioè forza persuasiva che agisce oltre l’ambito più ristretto fino a raggiungere tutti», come si era verificato nelle comunità monastiche medievali.