benedettosedicesimo

5.17.2005

Pietro dice: unità nella fede

Il nuovo papa viene dalla nazione tedesca (l’ultimo papa tedesco era stato Vittore II, 1055­1057) e ha scelto il nome di Benedetto XVI. Un nome iscritto nel cuore della storia dell’Europa: quella del monachesimo latino, evangelizzatore e civilizzatore del continente; quella novecentesca, devastata dalla morte di massa, legittimata e sperimentata attraverso due guerre totali e persino pianificata in quell’eruzione dell’orrore che fu la Shoah. Un’Europa tuttavia che non si è lasciata vincere dal male e nella quale il magistero dei papi, a partire da Benedetto XV, ha cercato d’ispirare alle coscienze la consapevolezza umana e il fondamento cristiano dell’irrazionalità e dell’inutilità della guerra, nonché la delegittimazione al suo ricorso quale strumento del diritto internazionale.

L’Europa, il cristianesimo europeo, ottengono, attraverso l’elezione di questo papa, un tempo ulteriore della loro «missione» storica. La Chiesa europea non ha ancora esaurito la sua centrale responsabilità nella Chiesa, anche se il conclave ha lasciato intravedere all’orizzonte un nuovo ruolo dell’America Latina.

Questa scelta si situa dopo la riunificazione del continente e la fine del comunismo e dello scontro ideologico. Proprio a motivo di questo esito, cui aveva posto mano il pontificato di papa Wojtyla, essa è stata resa possibile. Senza il papa polacco, e il suo disegno di riconciliazione e di purificazione delle memorie del cristianesimo, segnatamente nella storia europea, un papa tedesco non sarebbe stato pensabile.

La scelta di un nome europeo occidentale, dopo il ricongiungimento dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, indica la priorità programmatica della rievangelizzazione di una civiltà che ha avuto nel cristianesimo (anzi nei cristianesimi) le sue più robuste radici e dalle quali è sorta e poi, come il figlio prodigo, si è allontanata la modernità illuminista. A Est come a Ovest, al paolino «la verità vi renderà liberi» essa ha sostituito l’assunto di un io che definisce la propria libertà come estranea a ogni fondamento, consegnandola sempre e soltanto al proprio esperimento.

Nella rievangelizzazione (intesa come approfondimento della fede e rivitalizzazione delle molteplici tradizioni cristiane) è dunque individuata la questione decisiva per il futuro, a partire proprio dall’Europa.

Ridire l’essenza del cristianesimo è il modo per reggere le nuove sfide: il rischio avanzato di uno scontro delle civiltà, che oggi, dopo l’esplosione del terrorismo fondamentalista, mette nuovamente in questione la pace e ripropone forme di giustificazione religiosa della violenza; e la nuova definizione di persona (la svolta antropologica) conseguente all’avvento delle nuove tecniche della vita e della morte e della pervasività della comunicazione (cf. Regno 7,2005,102).

La rivitalizzazione e il rinnovamento delle tradizioni cristiane non significa il ritorno a una concezione fortemente istituzionalizzata della Chiesa, o della fede come un’ideologia, un sistema dottrinale onnicomprensivo, o un modello di religione civile utile ai potenti, ma guarda piuttosto alla concezione della Chiesa come una comunione e un popolo, abbraccia le domande che il Vangelo pone alla nostra vita.

La scelta del card. Ratzinger è una scelta di continuità. Dal 1981 egli è stato il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e da quell’incarico ha argomentato a livello teologico le principali scelte pastorali che Giovanni Paolo II ha inteso operare (cf. Regno­att. 4,1994,65). Numerose sono state anche le controversie teologiche che lo hanno riguardato (cf. Regno 7,2005,1ss). Ma un conto è il prefetto e un conto è l’apostolo. Con questa consapevolezza, papa Benedetto ha chiesto preghiere e fiducia nei suoi primi interventi.
Le parole programmatiche

Le ultime parole da cardinale decano, pronunciate da Ratzinger nell’omelia della messa «pro eligendo romano pontifice», erano state queste: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo a un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice san Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf. Ef 4,14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo…».

Le prime parole che Benedetto XVI ha pronunciato la mattina del 20 aprile nella Cappella sistina – parole a cui egli stesso ha conferito, nella liturgia d’inizio del pontificato, un significato programmatico – sono apparse più fiduciose, meno drammatiche; e sono state: Cristo e Pietro; comunione collegiale; il Concilio come bussola; eucaristia come fulcro della missione; ecumenismo; dialogo delle civiltà; giovani. Nell’omelia per l’inizio del suo ministero petrino ha poi esclamato: «La Chiesa è viva, e noi la vediamo».

L’insistenza sulla figura della chiamata di Pietro e della relazione tra Cristo e Pietro lascia intendere la volontà del nuovo papa di esercitare il magistero petrino con decisione. Non sappiamo in che modo egli intenda esercitarlo, se si tratterà di una continuità con le modalità dei papi precedenti o se, anche in ottemperanza a quanto Giovanni Paolo II aveva chiesto nell’enciclica Ut unum sint e tenendo conto del livello attuale dei problemi e dei risultati del dialogo ecumenico, egli intenda aggiornarne il metodo.

La seconda parola ha riguardato appunto la collegialità, cioè la forma originaria dell’ufficio spirituale che il Signore stesso ha stabilito per i Dodici, che il concilio Vaticano II ha con forza ribadito (cf. Lumen gentium, n. 22). «Questa comunione collegiale – egli ha detto – pur nella diversità dei ruoli e delle funzioni del romano pontefice e dei vescovi, è a servizio della Chiesa e dell’unità nella fede, dalla quale dipende in notevole misura l’efficacia dell’azione evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul quale hanno avanzato i miei venerati predecessori, intendo proseguire anch’io, unicamente preoccupato di proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo».

La terza parola è Concilio. Il nuovo papa ha confermato la sua decisa volontà di proseguirne l’attuazione: «Col passare degli anni, i documenti conciliari non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano anzi particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata». Ratzinger è l’ultimo grande partecipante al Vaticano II. L’ultimo testimone diretto. In qualità di teologo egli vi ricoprì il ruolo di perito. Se, come molti osservatori hanno annotato, la scelta iniziale del card. Ratzinger è stata fatta e sostenuta soprattutto dalla parte conservatrice e tradizionalista del collegio cardinalizio, allora la sua nomina può significare l’accettazione definitiva del Vaticano II da parte di ogni componente della Chiesa comprese quelle che sin qui sono state ostili e il superamento delle contrapposizioni precedenti. «Giustamente il papa Giovanni Paolo II ha indicato il Concilio quale “bussola” con cui orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio (cf. Novo millennio ineunte, nn. 57-58). Anche nel suo testamento spirituale egli annotava: “Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito” (17.3.2000)».

All’eucaristia, compresa sia in termini sacramentali sia in termini devozionali, il papa ha riservato un passaggio centrale. È stato questo uno dei temi su cui maggiore era stata la critica nei suoi confronti, ai tempi della sua prefettura, per le tendenze «restaurazioniste» che si potevano cogliere in talune affermazioni. Il 2005 è in questo senso un anno particolarmente indicativo: è l’anno eucaristico e all’eucaristia sono dedicati numerosi eventi ecclesiali: dalla giornata mondiale della gioventù di Colonia (in agosto) all’Assemblea ordinaria del sinodo dei vescovi (in ottobre), e per quel che riguarda l’Italia il Congresso eucaristico di Bari (a maggio). «A tutti – ha detto il papa – chiedo di intensificare nei prossimi mesi l’amore e la devozione a Gesù eucaristia e di esprimere in modo coraggioso e chiaro la fede nella presenza reale del Signore, soprattutto mediante la solennità e la correttezza delle celebrazioni».
Ecumenismo impegno primario

La questione ecumenica ha ottenuto la più incisiva delle sottolineature. Essa è stata impostata a partire dalla conversione interiore (a San Paolo fuori le mura, qualche giorno dopo, egli parlerà esplicitamente di «ecumenismo spirituale»); ciò che urge maggiormente è la «purificazione della memoria», che «sola può disporre gli animi ad accogliere la piena verità di Cristo». A partire da questa conversione il papa pone i gesti concreti, la ricerca storica, il dialogo teologico. Il papa sente che qui si gioca il futuro della Chiesa e dichiara di assumere «come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere». La promessa è solenne e per renderla ultimativa, trovandosi al cospetto del Giudizio michelangiolesco, aggiunge: «È davanti a lui, supremo giudice di ogni essere vivente, che ciascuno di noi deve porsi, nella consapevolezza di dovere un giorno a lui rendere conto di quanto ha fatto o non ha fatto nei confronti del grande bene della piena e visibile unità di tutti i suoi discepoli (...) L’attuale successore di Pietro si lascia interpellare in prima persona da questa domanda ed è disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo».

Meno vivido sembra essere l’accento posto sul dialogo interreligioso. Il quadro della Dominus Iesus è pienamente confermato. Qui è la categoria geopolitica di civiltà o quella culturale e filosofica di senso, non ancora quella teologica, a tessere l’ordito: «Il nuovo papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo. Con questa consapevolezza mi rivolgo a tutti, anche a coloro che seguono altre religioni o che semplicemente cercano una risposta alle domande fondamentali dell’esistenza e ancora non l’hanno trovata (...) Non risparmierò sforzi e dedizione per proseguire il promettente dialogo avviato dai miei venerati predecessori con le diverse civiltà, perché dalla reciproca comprensione scaturiscano le condizioni di un futuro migliore per tutti». Non c’è spazio per scontri di civiltà più o meno auspicati, né per una diminuzione del concetto di pace. Il riferimento alle civiltà implica oggi in modo urgente il confronto con l’islam religioso e le sue diversità politiche, ma apre anche a una diversa intesa con il mondo cinese, oggi più alla portata della Chiesa cattolica.

Negli interventi successivi il nuovo papa è tornato sull’argomento del dialogo interreligioso utilizzando anche categorie più direttamente teologiche. In particolare è il dialogo con gli ebrei che può conoscere uno sviluppo ulteriore. Su questo confronto, il card. Ratzinger era intervenuto più volte e in modo innovativo (cf. Regno-doc. 3,2001,96), descrivendo in termini di «dono» e di «eredità» la singolare relazione che intercorre tra la fede di Israele e la fede della Chiesa.

Benedetto XVI in tutti i suoi primi interventi ha chiesto fiducia e preghiere a tutta la Chiesa. Egli sa la difficoltà di passare immediatamente dal ruolo di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede a quello di apostolo della missione. È quella distanza che Paolo, scrivendo ai Corinti, esplicita nella volontà di non volere «fare da padrone sulla vostra fede», ma di preferire piuttosto essere «collaboratore della vostra gioia» (2Cor 1,24). Una distanza che Benedetto XVI intende percorrere.