Non serve strattonarlo. Si collocherà da solo
di Maurizio Blondet
Poche ore, e già Benedetto XVI è stato "spiegato", "interpretato", "situato": conservatore e non-pacifista; la sua posizione sulle donne e sugli omosessuali, sull’Islam; la sua idea di Chiesa; quale tendenza cattolica, lui Papa, "vince" o "perde". Tempesta mediatica forse inevitabile. Ma da inesperto, senza titolo alcuno, direi che questo Papa, prima, è da ascoltare. Interpretare il suo pensiero e indovinare le sue intenzioni, o peggio attribuirgliene di già confezionate, è un esercizio inane, visto che sa scrivere limpidamente, e s’interpreta da sé. Solo, va ascoltato. E con molta attenzione. Anzitutto perché parla in lui una cultura superiore, una finezza intellettuale che fu propria ancor ieri della sfera alta d’Europa – quella di Spengler e di Thomas Mann, di Mahler e di Heisenberg – ma che oggi suona insolita ad orecchie assuefatte alla chiacchiera da talk-show e al pressapochismo da telegiornali. Noi europei siamo parecchio scaduti da quel livello. Papa Benedetto è a suo agio nella complessità, e la riduzione in pillole del suo pensiero rischia di tradirne il cuore. Chi se ne intende dice che Ratzinger teologo è lontano sia dall’approccio "cosmologico" del tomismo, che risaliva a Dio attraverso la spiegazione del mondo naturale, sia da quello "antropologico" di certa teologia conciliare con le sue derive, fra cui la teologia della liberazione; e gli attribuisce una posizione "agostiniana", centrata sull’assenso intimo al dono di sé che ci ha fatto Gesù sulla croce. A che porti questa linea ardua che va dal medievale Bonaventura al contemporaneo Von Balthasar, un inesperto non sa dire. Ma può portare ad aperture che stupiranno i conservatori, e lasceranno senza fiato i progressisti. Magari perfino a un riavvicinamento oggi inaudito ai protestanti; senza alcun compromesso, s’intende, sulla Presenza Reale. Sto anch’io già "interpretando"? Avete ragione, mi scuso. Mi ripeto da me l’invito: ascoltare papa Benedetto, prima di tutto. Anche perché, ci avete fatto caso, non dice mai frasi di circostanza. Mai. Così quando, come ieri nella prima omelia da Pontefice, ha ribadito la sua volontà di «proseguire nell’attuazione del Concilio», non era la stanca ripetizione di un auspicio clericale che ci sentiamo ridire da quarant’anni; no, qui parla uno che fu tra i più entusiasti al Concilio e poi ne è stato – per certi versi – tra i più delusi, e non l’ha taciuto. E quando ha evocato la "comunione collegiale" con i vescovi, l’ecumenismo con i cristiani e il dialogo con i non cristiani, non era la consueta litania di formule più o meno spente del gergo professionale della nomenklatura talare. No, ognuna di queste formule nella sua bocca ha un contenuto limpido, preciso e concreto: è un impegno preso, e anche un impegno che sarà chiesto agli interlocutori. Vale la pena ascoltarlo, perché con lui comincia l’imprevisto. Innoverà, sfronderà quel che è morto, cambierà oltre i sogni più arditi dei progressisti; e – come può fare solo uno che è così fermo sul centro della fede (l’Eucarestia) e sulla continuità della tradizione – senza che il più schifiltoso dei conservatori ci trovi da ridire. Non so come esprimerlo, ma è un po’ come quando Gesù esordì: «Non sono venuto a cambiare uno jota della Legge», per poi cambiare tutto: ma nel senso dell’assoluta fedeltà al Padre, del ritorno a Lui.
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