Il destino della Chiesa
di Fulvio Tessitore
L’elezione di un papa, del vescovo della Chiesa universale, è tal fatto che non può essere commentato cedendo all’emozione né riducendo tutto (come si va facendo in queste ore, con poche eccezioni) a questa o a quella conoscenza personale. Perciò non dirò nulla dell’impressione che, a me laico, hanno procurato i riti del conclave e la comparsa sulla loggia di San Pietro di Benedetto XVI. Allo stesso modo non ricorderò quando, nel 1994, per desiderio del cardinale Giordano, inaugurai l’anno accademico della facoltà teologica dell’Italia meridionale assieme all’allora cardinale Ratzinger.
Né riferirò del colloquio avuto con lui e di qualche successiva lettura dei suoi libri. No. L’elezione di un papa va commentata, fin dove se ne è capaci, con uno sforzo di oggettivazione, che è la condizione del tentativo di comprendere. Ebbene, sono convinto che l’elezione del teologo Ratzinger al soglio di Pietro rappresenti una svolta dalle inimmaginabili conseguenze. Mi sembra di ricordare (cercherò di trovare il luogo del mio ricordo) che, una volta, il cardinale Ratzinger ha detto che la Chiesa di Roma deve essere pronta anche a sfidare d’essere minoritaria pur di conservare la fedeltà alla sua fede universale. Il che, del resto, è stato ribadito nell’ammonimento della Via Crucis a far pulizia delle brutture entrate nella Chiesa. Sembra un paradosso, ma non lo è, perché quest’affermazione significa molte cose e importanti. La premessa è la sicurezza incrollabile che il destino della Chiesa di Roma e nella finale universilità della comunità dei redenti e nella definitiva condanna dei miscredenti, che non sono soltanto i credenti di altre religioni, ma anche e soprattutto quanti non sanno restare fedeli ai princìpi della Chiesa di Roma, pur facendone parte. Da qui la grande scelta del teologo Ratzinger, che recupera, dentro il quadro del restaurato Dio cosmogonico del Vecchio Testamento, la forza del Vangelo che va gridato dai tetti, senza preoccuparsi di chi e di quanti l’ascoltino. Insomma, la Chiesa di Benedetto XVI non sarà disposta ad ammiccamenti accattivanti, che mettano in discussione i suoi precetti tradizionali, costi quel che costi il farlo. Si chiuderà al moderno come ha già scritto Giovanni Paolo II nell’ultimo libro pubblicato sotto il suo segno. Sarà un grande insegnamento di fedeltà e di coerenza intellettuale. Ma sarà anche una drammatica e fin tragica chiusura alla modernità, in nome di un curioso equivoco sul significato del relativismo filosofico, erroneamente identificato con l’indifferentismo etico. Sta qui la irreperabile chiusura alla modernità, se è vero, com’è vero, che il principio di relatività è il valore fondante della scienza (basta pensare a Einstein) e della cultura (basta pensare all’esistenzialismo o allo storicismo) contemporanee... Tutto ciò comporterà certo la continuità di Benedetto XVI con Giovanni Paolo II sul piano dottrinale, che già il teologo Ratzinger, prefetto della Congregazione per la difesa della fede, aveva ispirato e governato. E però si normalizzerà definitivamente il Concilio ecumenico Vaticano II, con grande gioia dei neo-con, in vero un po’ ottusi (almeno i nostrani) al significato della evangelizzazione giovannea, che portò fuori del porto sicuro la navicella di Pietro, certo esponendola allo «sbattimento» dei venti e delle onde, ma facendone il simbolo di una rinnovata speranza per tutti gli uomini di buona volontà. Ma segnerà anche la profonda discontinuità del nuovo pontificato, perché annullerà (al di là delle forme ed apparenze) la straordinaria scelta comunicativa di Giovanni Paolo II, e lo si è visto subito, con il professorale, controllatissimo primo messaggio del Papa appena eletto, che non ha mirato per nulla a stabilire un contatto con le masse emozionate e plaudenti con ingenuo sentimento di entusiasmo, e ha indicato il luogo del suo magistero, la vigna del Signore. Non si tratta di discutere la semplicità, la pietà, la fede di Benedetto XVI. Si tratta di capire ch’egli lavorerà nella «vigna del Signore» per restaurare i sostegni della vite degli antichi dogmi avvizziti. Si aprirebbe ora un altro discorso e cioè la valutazione di questa scelta di fede. Ma questo significa uscire dallo sforzo di comprensione ed entrare nel mondo del giudizio. E questa non è la sede ed il tempo per farlo. Mi limito a due osservazioni. Come studioso, come intellettuale non posso che compiacermi per l’onestà intellettuale di chi non ha mai cercato compromessi, costi quel che costi questo rifiuto nell’immediato del tempo dinanzi alla certezza dell’eterno. Come uomo comune che sa che la forza della vita sta nella capacità e volontà di comprendere in sé il proprio tempo, non posso che nutrire angoscia, timore e tremore per il destino, nella Chiesa di Roma, della multiculturalità ed interculturalità che sono la cifra del nostro tempo, piaccia o dispiaccia, perché è così. Fulvio Tessitore
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