Benedetto levatore di civiltà
di Maria Pia Alberzoni
«Benedetto, leggendo i segni dei tempi, vide che era necessario realizzare il programma radicale della santità evangelica (…) in una forma ordinaria, nelle dimensioni della vita quotidiana di tutti gli uomini. Era necessario che l’eroico diventasse normale, quotidiano, e che il normale, quotidiano, diventasse eroico. In questo modo egli, padre dei monaci, legislatore della vita monastica in occidente, divenne anche indirettamente il pioniere di una nuova civiltà. (…) Bisogna ammirare la semplicità di tale programma, e nello stesso tempo la sua universalità. Si può dire che quel programma ha contribuito alla cristianizzazione dei nuovi popoli del continente europeo e nello stesso tempo si è trovato anche alle basi della loro storia nazionale, di una storia che conta più di un millennio. In questo modo san Benedetto divenne il patrono d’Europa nel corso dei secoli: molto prima di essere proclamato tale da Papa Paolo VI».
Le parole pronunciate da Giovanni Paolo II nell’omelia della messa celebrata a Norcia, il 23 marzo 1980, durante la sua visita celebrativa del XV centenario della nascita di san Benedetto, sintetizzano mirabilmente il progetto di vita realizzato dal santo e il suo apporto alla storia d’Europa.
È indubbio il contributo che la capillare presenza di monasteri nelle regioni europee ebbe nel ridisegnare il volto del continente. Ma chi era colui che a ragione è indicato come il padre del monachesimo occidentale? Dopo aver vissuto come eremita a Subiaco, assunse la guida di alcune comunità su richiesta dei monaci che vivevano nei dintorni, finché attorno al 530 decise di trasferirsi a Montecassino dove diede avvio al nuovo monastero. Alla sua fondazione si collega l’avvio della stesura della Regola, che continuò fino alla morte, avvenuta attorno al 560.
Erano tempi difficili, quelli, soprattutto per la parte occidentale dell’impero romano: la penisola italiana era parte del regno di Teodorico, sovrano di grande cultura e aspirazioni, che si circondò di personaggi di altissimo livello culturale: basti ricordare il filosofo Severino Boezio e l’erudito Cassiodoro.
Un’epoca fatta di luci e di ombre, rispetto alla quale Benedetto non si sentì estraneo o sterilmente critico, ma a cui partecipò costruttivamente. Siamo informati dei suoi contatti – oltre che con monaci, abati e vescovi – anche con il re degli Ostrogoti Totila, il successore di Teodorico. Benedetto conobbe pure le grandi difficoltà delle popolazioni italiche durante la guerra greco-gotica (535-553), che portò alla riconquista della penisola da parte dell’imperatore Giustiniano. In questo contesto si mise in gioco non tanto con un impegno politico o puramente intellettuale, ma con la fondazione di comunità monastiche dove si praticava innanzitutto uno stile di vita nuovo, fondato sul comune desiderio di seguire le orme di Cristo sotto la guida di un maestro, l’abate, il padre della comunità.
Fu un grande papa, Gregorio Magno (590-604), a tessere per primo gli elogi di Benedetto, dedicandogli il secondo libro dei suoi Dialoghi, ma è soprattutto la mirabile sintesi operata dal santo abate nella Regola e la profonda spiritualità che la sottende ciò che consente di conoscere i tratti salienti della sua figura. La Regola costituì il più noto e diffuso testo normativo della cristianità occidentale, con una diffusione capillare soprattutto nelle regioni occidentali del continente europeo dove si era verificato il fecondo incontro tra il mondo romano e quello germanico. Gli studi che si sono sviluppati a partire dalla metà del secolo scorso hanno permesso di precisare i problemi legati al rapporto tra la Regola di Benedetto e quella detta del maestro, un altro testo normativo dal quale Benedetto attinse abbondantemente, ma con una tale intelligenza e capacità di sintesi da riuscire del tutto innovatore.
La Regola annovera 73 capitoli che possono essere in tre grandi parti: il Prologo e i primi 7 capitoli trattano motivi di carattere spirituale della «scuola che educa al servizio di Dio», il monastero, al quale è preposto l’abate; nei capitoli 8-66 sono definiti i diversi uffici indispensabili a garantire l’ordinata vita della comunità monastica nei suoi vari aspetti; i capitoli 67-72 costituiscono probabilmente un’aggiunta suggeritagli dalla sua pluridecennale esperienza di abate; infine il capitolo 73, l’epilogo della Regola, chiarisce l’umile e fondamentale lavoro intrapreso da Benedetto: «Dunque, chiunque tu sia che ti affretti alla pratica celeste, attua, con l’aiuto di Cristo, questa regola minima, scritta per i principianti».
Il genio di Benedetto è dunque nel metodo con il quale ha operato la ricostruzione dell’umano, allora come oggi messo alla prova da difficoltà di diverso genere: la Regola è infatti finalizzata ad aiutare il monaco, inserito in una comunità, a conformarsi alla vita di Gesù.
Come efficacemente sintetizzò Giovanni Paolo II nella Grande preghiera per l’Italia e con l’Italia, composta in occasione della solenne concelebrazione con i vescovi italiani il 15 marzo 1994, il senso della cultura umana consiste nel fatto che «l’uomo trasforma il mondo trasformando se stesso. Questo è uno dei significati della vocazione benedettina».
Benedetto pose così le basi per l’attuazione di una reale comunità monastica, offrendo un contributo fondamentale all’elaborazione di una nuova civiltà, di una convivenza ordinata tra persone appartenenti a mondi e a culture diverse: nel monastero, infatti, non ci sono differenze tra gruppi etnici e culturali tra loro differenti, quali erano i romani e i germani.
La Regola era in primo luogo indirizzata a Montecassino, ma ben presto altri la presero a modello, all’inizio assai gradatamente, giacché essa rimaneva una tra le tante conosciute sia nella penisola italica sia nel resto d’Europa. A consacrare la sua importanza e a renderla codice normativo per eccellenza della vita monastica fu Benedetto di Aniane, un monaco vicino alla corte carolingia, che suggerì al figlio di Carlo Magno, Ludovico il Pio, di estenderne l’osservanza a tutti i monasteri dell’impero.
Grande fu il contributo del monachesimo sia per l’evangelizzazione di diverse regioni europee non ancora raggiunte dal cristianesimo – basti pensare a Colombano e Bonifacio, provenienti rispettivamente dall’Irlanda e dall’Inghilterra, o al monaco Agostino, inviato da Gregorio Magno presso gli Angli –, sia per la diffusione di uno stile di vita al quale siamo ancora per tanta parte debitori. Pensiamo solo a due aspetti concreti della cultura europea: la concezione del lavoro e l’organizzazione della giornata, fino agli usi alimentari.
Il capitolo 48 della Regola mette il lavoro, anche manuale, sullo stesso piano della preghiera, così che la giornata del monaco è regolata da queste due occupazioni: si introduce un principio decisamente nuovo, poiché il lavoro non è una maledizione, ma una via per giungere alla salvezza, come lo è la preghiera. Anche per quanto riguarda gli usi alimentari – la ritmicità dei pasti consumati in comune dall’intera famiglia, l’importanza del pane per l’alimentazione europea – è possibile notare l’importante influsso dell’ordinata vita monastica.
Se da una parte l’attuale Europa ha tanto timore a guardare alla sua storia con franchezza, senza lasciarsi condizionare da pregiudizi infondati che le impediscono di riconoscere le sue origini e di negare il significato profondo del suo apporto alla civiltà mondiale, dall’altra, come ricordava Ratzinger nel suo scambio epistolare con Marcello Pera, il nascere di una nuova linfa vitale per la nostra civiltà, che la aiuti a superare «l’odio di sé», può essere oggi realizzato da «luoghi di incontro che diventino lievito, e cioè forza persuasiva che agisce oltre l’ambito più ristretto fino a raggiungere tutti», come si era verificato nelle comunità monastiche medievali.
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