benedettosedicesimo

4.26.2005

I deserti del tempo reclamano il Pastore

di Elio Maraone

«In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto...». Imperiosa, toccante, come è per molte delle nostre prime letture, l’immagine dell’araldo che – racconta Matteo – precede Gesù e grida «Convertitevi» balza davanti a noi «in questi giorni così intensi» (parola di nuovo Papa), e con scoperta passione vissuti da Benedetto XVI: nell’omelia sul sagrato della Basilica, che egli tiene sotto il peso dolce e tremendo del pallio petrino, Joseph Ratzinger ricorre ancora una volta – la prima da Papa – alla figura del deserto. Il deserto può essere il luogo della purificazione e dell’ascesi (lo è stato per Israele nel suo peregrinare e per molti Padri), ma è anche il luogo della desolazione, del nulla.

Non un albero, un muro, una casa, una città rumorosa impediscono, a chi lo voglia, la contemplazione dei cieli e l’ascolto della «voce che –secondo Isaia, citato da Matteo – grida nel deserto». Ma purtroppo, per i ciechi e sordi nel cuore, il deserto diventa sinonimo di paura e di sperdimento, occasione di tentazioni come quando – è sempre Matteo che racconta – «Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo».

Il Papa in un passaggio centrale dell’omelia di ieri non nomina espressamente il diavolo (cioè, letteralmente, «colui che divide» gli uomini dagli uomini, e questi da Dio), però osserva, con dolore venato di sgomento, il risultato della sua opera: «... vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo».

E, ancora, in un passo che va sottolineato, il Papa osserva: «I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo perché i deserti interiori sono diventati così ampi». Il deserto – interiore ed esteriore – può anche fiorire, ma a patto che l’uomo lo voglia, che sappia colmarne i dislivelli, allontanarne le pietre ingombranti, portarvi la buona acqua della fratellanza invece del sangue sparso (è un fatto almeno curioso che le guerre più recenti si siano svolte e si svolgano in regioni desertiche).

Tuttavia, annota Benedetto XVI, «i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione». Parole amare, parole severe, specialmente le ultime, ma che non sono affatto un segno di resa perché «la Chiesa nel suo insieme, ed i pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto.... verso Colui che ci dona la vita». La Chiesa stessa «è viva», ha detto e ripetuto il Papa all’inizio dell’omelia, «perché Cristo è vivo», e «la Chiesa è giovane».

Giovane e viva insomma anche nel deserto contemporaneo: come uno stupendo sempreverde, come una sorgente inestinguibile, come, dice il Papa, «il pastore che cerca nel deserto» la pecorella smarrita, ossia l’umanità. Anche il pastore di oggi (e qui, ci sembra, affiorano una vena autobiografica e un tremendo impegno personale) deve essere animato dalla «santa inquietudine di Cristo» pastore: e dunque possiamo dire che il Papa, dopo aver indossato la lana d’agnello del pallio che rappresenta anche la pecorella smarrita e comunque debole, nella traversata del deserto è pronto a caricarsi tutti noi sulle spalle. Ma questo non vuol dire che la sua fatica debba restare isolata: noi tutti siamo infatti invitati ad alleviare quel carico, a «portarci l’un l’altro».