Dio, la ricerca e la fede nel pensiero di Joseph Ratzinger
di + Bruno Forte
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto
È lo stesso Joseph Ratzinger a offrirci la chiave di lettura della sua opera di pensatore della fede e di uomo di dialogo con i cercatori di Dio quando afferma che lo scopo della Sua vita intera è stato quello di dedicarsi «al servizio della parola di Dio che cerca e si procura ascolti tra le mille parole degli uomini» (Prefazione a A. Nichols, Joseph Ratzinger, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 6). Chi cerca e si procura ascolti non ha nulla del presuntuoso possessore della Verità che voglia imporla agli altri a colpi di clava: Ratzinger pone e accoglie domande vere e non offre mai risposte che non siano rigorosamente argomentate. Ne è prova significativa tra tante il dialogo svoltosi il 19 gennaio 2004 a Monaco di Baviera fra lui e il filosofo Jürgen Habermas su I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale (di cui è imminente l’uscita in volume per la Morcelliana di Brescia). Se Habermas è considerato come il più influente filosofo tedesco del momento, il cui ruolo appare persino quello di dare voce alla coscienza morale nella cultura politica del Paese, Ratzinger non è solo il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede divenuto oggi Papa Benedetto XVI, ma anche il fine intellettuale che - ad esempio - nel 1992 è stato accolto nell’«Académie des Sciences Morales et Politiques» dell’«Institut de France», lui, uomo di Chiesa tedesco.
In realtà, Joseph Ratzinger intende l’opera del pensiero e della ricerca come semplice e puro servizio alla Verità: ecco perché il vero idolo negativo è da lui identificato nel relativismo, in quella posizione cioè che riconoscendo il pluralismo delle verità – più o meno legate all’arbitrio soggettivo – esclude l’idea della Verità da servire e da amare, sostituendola con l’unica certezza che tutto sia relativo. A questo forte senso della Verità Ratzinger giunge non in un'avventura individuale senza radici profonde, ma attingendo alla comunione della Chiesa di Dio come vero “uomo ecclesiale”, nel contesto della grande tradizione del pensiero occidentale: dagli studi sull’amatissimo Agostino e su Bonaventura alla frequentazione dei maestri dell'eredità di Monaco (Sailer, Görres, Bardenhewer, Grabmann e Schmaus, per fare solo qualche nome), al dialogo con la sapienza greca, soprattutto platonica, e con la filosofia moderna e contemporanea, il futuro Benedetto XVI si nutre di uno straordinario patrimonio di pensiero, che attualizza e rielabora al fine di dire in modo nuovo il messaggio antico della rivelazione cristiana per l'inquieta cultura del nostro tempo, segnato da cambiamenti tanto rapidi, quanto profondi.
Si può dire veramente che la sua teologia e la sua filosofia più che aristocratico amore della sapienza, sono espressione di un’umile e convinta sapienza dell’amore, da offrire con generosità agli altri, in ascolto e in dialogo con tutti. Nel presentare il pensiero del futuro Benedetto XVI sul tema “Dio: la ricerca e la fede”, cercherò allora di rispondere a quattro domande, che ci riguardano tutti, credenti e non credenti pensosi: che significa credere? Chi è il Dio in cui crede chi crede? Che rapporto c’è fra l’umano e il divino riconosciuto nella fede? Quale è il luogo vivo dell’incontro, ovvero: dove “abita” Dio? Il riferimento al dialogo di Ratzinger con Habermas servirà a mostrare il profondo carattere dialogico delle risposte date dal futuro Benedetto XVI, sempre attente alle ragioni dell’altro.
1. Che significa credere?
Nell'analisi di Ratzinger credere «significa dare il proprio assenso a quel “senso” che non siamo in grado di fabbricarci da noi, ma solo di ricevere come un dono, sicché ci basta accoglierlo ed abbandonarci ad esso» (Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1969, 41). La fede è l’accettazione consapevole e libera del “senso donato” e nasce dall'incontro fra il movimento di autotrascendenza dell'uomo e l’offerta assolutamente gratuita e indeducibile della grazia di Dio. Quest’incontro è tutt’altro che scontato: esso va anzi vissuto in tutta la sua dimensione agonica, segnata dall'esperienza della reale alterità dell'Altro: «Il “Credo” cristiano riprende con le sue prime parole il “Credo” d'Israele, accollandosi però al contempo anche la lotta d'Israele, la sua esperienza della fede e la sua battaglia per Dio, che diventano così una dimensione interiore della fede cristiana, la quale non esisterebbe affatto senza tale lotta» (73).
A questa visione della fede Habermas si mostra quanto mai interessato: “La ragione che riflette sul suo fondamento più profondo – afferma nel dialogo citato - scopre la sua origine in un Altro; e la potenza fatale di questo deve essere riconosciuta dalla ragione, se essa non vuole perdersi nel vicolo cieco di un ibrido divenire preda di se stessa… Pur senza un’iniziale intenzione teologica, la ragione che scopre i suoi stessi limiti trapassa verso un Altro”. La prospettiva di un apprendimento complementare tra religione e ragione è dunque condivisa da entrambi. La visione che Ratzinger ha della razionalità, della sua forza e dei suoi progressi, è senza dubbio più problematica di quella espressa da Habermas. Da teologo egli non manca di rilevare come accanto alle patologie della religione – di cui possono essere esempio i movimenti religiosi che alimentano la violenza e il terrorismo – vi sono anche patologie della ragione, come quelle che hanno portato alla costruzione e all’uso di terribili armi di distruzione. Ma questo rilievo non esime la fede dal dovere di un dialogo purificatore con la ragione e Ratzinger non esita a dichiarare che esiste una «necessaria correlazione tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una con l’altra». La fede – lungi dall’essere sacrificio dell’intelligenza – ne è insomma straordinario stimolo e alimento. La ragione che voglia dare ragione di quanto esiste, esercitata fino in fondo, si apre allo stupore davanti al mistero, dove abita l’Altro, che chi crede riconosce come il Dio al tempo stesso sovrano e vicino…
2. Chi è il Dio in cui crede chi crede?
L'unico Dio cui si affida chi crede è il mistero del mondo, il senso ultimo della vita e della storia, la ragione inconfutabile per diffidare della miopia di tutto ciò che è penultimo, il fondamento al tempo stesso della vigilanza critica nei confronti di tutto ciò che è meno di Lui e della speranza profetica nei riguardi del veniente e del nuovo collegati alla Sua promessa. «Chiamando Dio “Padre” e al contempo “Sovrano dell'universo”, il Credo ha abbinato un concetto familiare ed uno di portata cosmica, facendoli servire alla descrizione dell'unico Dio. In tal modo esso mette bene in risalto quali siano le note più salienti che nella fede cristiana caratterizzano il ritratto di Dio: la tensione fra potenza assoluta ed amore assoluto, fra incommensurabile distanza e strettissima vicinanza» (109). È proprio il paradosso della compresenza di queste due caratteristiche che aiuta a comprendere in che senso il Dio della fede sia il Dio vivente: non un morto oggetto, su cui esercitare il gioco dell’intelligenza, ma il Soggetto vivo e operante, cui corrispondere con la consapevolezza e la libertà dell’accettazione di un’alleanza d’amore. Non un Dio concorrente dell’uomo, ma il Dio umano, la cui gloria è l’uomo vivente!
Di questo Dio le tesi di Habermas pretendono di offrire una sorta di traduzione secolare, che – seppur contestabile nell’ottica della fede vissuta – mostra la singolare corrispondenza che c’è fra ricerca filosofica di Dio e fede cristiana in Lui: “La compenetrazione reciproca di cristianesimo e metafisica greca non ha prodotto solo la forma spirituale della dogmatica teologica e una, non sempre benefica, ellenizzazione del cristianesimo. Tale compenetrazione ha favorito anche, dall’altro lato, l’appropriazione di contenuti genuinamente cristiani, da parte della filosofia. Questo lavoro di appropriazione si è dispiegato in connessioni concettuali dalla forte carica normativa, connessioni come responsabilità, autonomia e giustificazione, come storia e ricordo, nuovo inizio, innovazione e ritorno, come emancipazione e compimento, come alienazione, interiorizzazione e incarnazione, individualità e comunità. Questo lavoro ha certo trasformato il senso religioso originario, ma non l’ha deflazionato e devitalizzato, rendendolo vuoto. Tradurre l’idea di un uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio nell’idea di un’eguale dignità di tutti gli uomini, da rispettarsi incondizionatamente, costituisce un esempio di una tale traduzione salvante. Essa impiega e dischiude il contenuto dei concetti biblici al di là dei confini di una comunità religiosa, fino al pubblico generale di coloro che hanno altre fedi o che non credono”. Anche qui, la corrispondenza con le tesi di Ratzinger si unisce alla ulteriore problematicità che questi avanza: la semplice “traduzione” dei concetti teologici in categorie mondane non basta. Il rapporto fra il divino e l’umano è ben più complesso…
3. Quale rapporto fra l’umano e il divino?
Nell'incontro della fede l’umano e il divino si rapportano in maniera dialettica, viva e vitale: Ratzinger ha approfondito questo rapporto, mostrando come l'esperienza ecclesiale della grazia venga a costituire il vero compimento della ricerca del cuore umano, e come ciò avvenga non senza un prezzo pari alla dignità della creatura. La «tesi dualista», che oppone natura e grazia secondo la dottrina della «natura pura» e la teoria dei «due ordini», naturale e soprannaturale, aveva finito col mantenere l'azione della grazia in un marcato estrinsecismo: alla mera non imputazione del peccato non veniva a corrispondere alcuna modifica della dinamica spirituale e naturale dell'uomo. Le «dottrine dell'immanenza» - legate ai progetti emancipatori della modernità - avevano colto unicamente nelle capacità intrinseche dell'umano il potenziale da esprimere ed attuare nel progresso della vita personale e sociale.
Fra questi opposti estremismi, la tradizione credente ha cercato un equilibrio, che Ratzinger vede bene espresso nella formula gratia praesupponit naturam (o anche gratia non destruit, sed supponit et perficit naturam), da lui studiata in un contributo ispirato al suo maestro Gottlieb Söhngen: «Il naturalismo che rifiuta la grazia nella natura porta allo stesso risultato del soprannaturalismo, che combatte la natura e, travisando la creazione, rende priva di senso anche la grazia» (J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, 138). In primo luogo, se la grazia presuppone la natura, l'interlocutore umano del patto non è annientato, ma entra nel mistero dell'alleanza con Dio in tutta la consistenza e la dignità del suo essere. L'uomo sta davanti all'Eterno come protagonista, non come semplice recettore passivo dell'opera divina in lui. Nella densità del praesupponit è compreso allora anche lo spazio della libera azione della creatura, che può aprirsi con consapevolezza e responsabilità all'accoglienza del dono soprannaturale, o può chiudersi in se stessa, in una presunta autosufficienza davanti al Mistero. Ecco perché nell'assioma occorre correttamente leggere un movimento dialettico. La grazia compie la natura anzitutto in quanto la nega nelle sue chiusure: essa giunge all'uomo «soltanto violando il duro involucro dell'auto-esaltazione, che copre in lui la magnificenza di Dio. E questo vuol dire che non esiste grazia senza la croce» (152). L'incontro con Dio inizia sempre con la chiamata al cambiamento radicale del cuore e della vita.
Insieme con questa negazione dell'antropologia in quanto chiusa all'Eterno, la grazia ne comporta però anche la piena affermazione: se l'uomo è desiderio di Dio, l'offerta dell'autocomunicazione divina lo realizza al più alto livello dell'aspirazione del suo essere. Nel praesupponit sono comprese la gioia e la bellezza della vita divina partecipata alla creatura, la pienezza di senso che essa soltanto è capace di dare alla vita dell'uomo sulla terra: «Solo l'umanità del secondo Adamo è la vera umanità, solo l'umanità che è passata attraverso la croce mette in luce il vero uomo» (153). La dialettica della negazione e dell'affermazione, tuttavia, non rende ancora la pienezza di senso dell'assioma: il compimento del desiderio umano da parte del Dio vivente è il suo superamento a un livello che il desiderio stesso non avrebbe mai potuto raggiungere. «La vera umanità dell'uomo è l'umanità di Dio, la grazia, che riempie la natura» (154). È questa peraltro anche la conclusione che Ratzinger trae al termine del suo dialogo con Habermas: “È importante per le due grandi componenti della cultura occidentale farsi coinvolgere in una correlazione polifonica, in cui aprano se stesse alla complementarità essenziale tra ragione e fede, cosicché possa crescere un processo di purificazione universale, in cui in ultima istanza i valori e le norme essenziali in qualche modo conosciuti o presagiti da tutti gli uomini possano conseguire nuova forza d’illuminazione, cosicché possa ritornare ad avere forza operante quanto tiene unito il mondo”.
4. Quale è il luogo vivo dell’incontro, il “circolo ermeneutico” dell’assenso credente?
È in questa prospettiva che la Chiesa - terreno dell'avvento libero e gratuito dell'amore eterno - può essere colta nel suo profondo significato di luogo del rapporto sempre vivo e fecondo fra il Dio vivente e la nostalgia del cuore umano assetata di Lui: Ratzinger lo fa esaminando un altro asserto della tradizione teologica, non meno ricco di sorprendenti illuminazioni, l'assioma «extra Ecclesiam nulla salus» (J. Ratzinger, Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, in Id., Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, 365-389). Esso non è comprensibile all'infuori dell'orizzonte unitario e totalizzante del simbolismo patristico: «La frase è sviluppata sullo sfondo dell'immagine del mondo propria dell'antichità, che vi si è anche intessuta e ne è parte. In forza di questa immagine del mondo, al termine del tempo patristico il mondo era ritenuto come prevalentemente cristiano. L'impressione di ciò che si sapeva del mondo era che chiunque volesse essere cristiano, lo poteva anche essere e lo era. Solo più un irrigidimento colpevole teneva l'uomo lontano dalla Chiesa» (373). In quanto ambito della presenza e dell'offerta del Logos universale, la Chiesa appare ai Padri come il luogo proprio in cui trova espressione l'accoglienza salvifica dello stesso Logos, e la separazione da essa come un allontanarsi dalla porta, che sola conduce pienamente alla vita.
Certo, la Chiesa resta paradosso, che vela e rivela: perciò, essa rinvia a Colui da cui viene e verso cui tende, e non può mai presumere di essere un assoluto, che si sostituisca all'attrazione misteriosa di Dio ed alla libertà delle Sue vie. Nella concezione della Chiesa come sacramento di salvezza universale coesistono allora «sia l'ampiezza illimitata della salvezza (universalismo come speranza), sia l'indispensabilità dell'evento Cristo (universalismo come pretesa)» (380). Il paradosso ecclesiale rimanda così inevitabilmente al mistero del Regno: proprio così esso rispetta ogni libertà. E perciò non sorprende che il dramma del male e del peccato abiti anche nella Chiesa: Ratzinger lo sa bene e vi riflette con coraggio. Santa per la chiamata e la fedeltà di Dio, la Chiesa è non di meno peccatrice nelle colpe dei suoi figli. Essa «vive sempre ancora del perdono, che la trasforma da prostituta in sposa; la Chiesa di tutte le generazioni è Chiesa per grazia, che Dio si trae fuori sempre di nuovo da Babilonia, dove gli uomini si trovano a vivere secondo le loro forze... Proprio l'assolutezza della grazia include l'insufficienza e la criticabilità degli uomini, ai quali è rapportata. Ma questi uomini... sono la Chiesa, una Chiesa che non si può semplicemente staccare da loro, come se fosse qualcosa di proprio, di puramente oggettivo dietro agli uomini; essa vive invece negli uomini, anche se li trascende per quel mistero della benevolenza divina, che essa comunica loro. In questo senso, la Chiesa santa resta sempre in questo tempo anche Chiesa peccatrice» (Il nuovo popolo di Dio, o.c., 278s).
A partire da questa coesistenza di santità e di peccato, si comprende in che senso la vita stessa della Chiesa esiga il suo incessante rinnovamento: per risplendere come Israele escatologico, il popolo di Dio deve rendere visibile e attraente la sua santità attraverso un sempre nuovo ritorno al Signore e alla sua signoria assoluta in ogni campo del suo esistere storico. Il criterio della vera riforma e dell'autentico rinnovamento è la fedeltà alla volontà di Dio riguardo al suo popolo: il rinnovamento non si fa, allora, scegliendo forme di rottura, che privilegino contro la massa il piccolo gruppo degli eletti, ma è ecclesiale nel suo fine e nei suoi protagonisti. La riforma si fa insieme con tutti: la Chiesa si rinnova veramente, se si rinnova nella comunione della sua fede, in uno sforzo autenticamente «cattolico» di conversione, che non escluda pregiudizialmente nessuno, e non punti a modelli irraggiungibili o impossibili per la maggior parte dei fedeli. In questo senso il rinnovamento «non consiste in una quantità di esercizi ed istituzioni esteriori, ma nell'appartenere unicamente ed interamente alla fraternità di Gesù Cristo... Rinnovamento è semplificazione, non nel senso di un decurtare o di uno sminuire, ma nel senso del divenire semplici, del rivolgersi a quella semplicità vera che è il mistero di tutto ciò che vive... e che in fondo è un'eco della semplicità del Dio uno» (Il nuovo popolo di Dio, 301. 303).
La fede vissuta in continuo rinnovamento nella Chiesa diventa così la via in cui si prepara e si anticipa il compimento dell'“éschaton”: «La partecipazione al martirio di Cristo è quel modo di morire che è la fede e l'amore, per cui accetto la mia vita e la rendo accetta a Dio, il quale, solo in quanto Trinità, può essere amore, e solo in quanto amore rende il mondo sopportabile» (cf. J. Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1985, 115). A tutti è data la possibilità di entrare nella tensione fra il già e il non ancora di cui la Chiesa è sacramento: per i credenti, incorporati al Corpo ecclesiale di Cristo, questa condizione sarà comunque segnata dal conforto della “comunione dei santi”, che, radicata nella vita delle relazioni divine, consente la comunicazione interpersonale nella fede, nella speranza e nella carità, espressa e nutrita dalla preghiera, nel tempo e per l’eternità. In questo senso, veramente, “chi crede non è mai solo, nella vita, come nella morte” (Omelia del 24 Aprile 2005, Inaugurazione del Pontificato). Questo il teologo Joseph Ratzinger ha mostrato con l'intera Sua vita ed opera. Di questo la Chiesa tutta, e la teologia in essa, devono essergli riconoscenti. Possa il Signore che lo ha chiamato ora a seguirlo nella sede di Pietro sostenere Benedetto XVI nel realizzare per la Chiesa degli inizi del Terzo Millennio le prospettive stupende di fede, di amore e di speranza che gli ha concesso di contemplare e di vivere, di far contemplare e di far vivere nel suo servizio di teologo veramente “cattolico”.
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