Il male non è mai banale
di SERGIO GIVONE
UN UMILE lavoratore nella vigna del Signore: così il nuovo Papa si è definito presentandosi alla folla accorsa in San Pietro, consapevole naturalmente di parlare al mondo intero. Era come se rispondesse alla domanda che nel vangelo di Marco il Cristo rivolge ai discepoli: «Chi credete che io sia?». Ecco, Papa Ratzinger vuol essere considerato, dopo Papa Wojtyla ormai chiamato il Grande, nient'altro che un umile lavoratore. Quasi a voler sottolineare un elemento di discontinuità piuttosto che di continuità. Se il passaggio di Giovanni Paolo II nella storia è stato quello di un turbine impetuoso e travolgente, ora con Benedetto XVI sembra venuto il tempo della riflessione, del raccoglimento, del pensiero.
Sappiamo che Joseph Ratzinger è un intellettuale raffinato, un filosofo, un teologo, che si è formato e ha insegnato in alcune delle più prestigiose università tedesche. Di fronte alla definizione che egli ha scelto per sé, qualcuno avrà pensato a un eccesso di modestia, a una forma di understatement ; ma sarà bene ricordare che in quelle università il lavoro intellettuale è pensato non solo come un lavoro paziente, preciso, meticoloso, ma soprattutto come un lavoro che aderisce umilmente alle cose e ai testi, lavoro faticoso (la «fatica del concetto», diceva Hegel). Niente come il prendere cura, l'accudire, il preservare definisce questo tipo di attività. La metafora che Ratzinger ha scelto non è affatto casuale. Anzi.
Se poi ci chiediamo quale sia l'oggetto di questo prendere cura, di questa sapiente ma ferma custodia, la risposta appare inequivocabile: è la dottrina della fede, è l'ortodossia. Quella dottrina della fede che Ratzinger vede minacciata dallo spirito del tempo, che è pieno di contraddizioni, intriso com'è di ateismo e di vago misticismo, di una filosofia che toglie di mezzo la trascendenza e di una filosofia che la identifica con l'ideologia, di collettivismo che disprezza la persona e di individualismo che sembra esaltarla ma di fatto la nega. E a minacciare e anzi ad aggredire, come dice Ratzinger, l'ortodossia sono non soltanto queste concezioni erronee. E' la peggiore delle insidie. Il relativismo.
Ebbene sì, diciamolo, il relativismo è il nostro destino. L'assoluto, l'incondizionato sembrano essersi dileguati dal nostro cielo. E non è detto che questo sia un fenomeno privo di valori positivi. In fondo è alla luce del relativismo che l'ideale della tolleranza ha potuto svilupparsi. Rendendo meno drammatico lo scontro fra le fedi. Com'è allora che il nuovo Papa vede nel relativismo l'incarnazione stessa del Nemico?
Per capire questo punto cruciale occorre considerare il rapporto che Ratzinger stabilisce fra il relativismo e la banalizzazione del male. Il male è il male. Non è che quel che qui è male, là sia bene, e magari né male né bene da qualche altra parte. Di fronte al male, il no deve essere senza condizioni. Pena il nostro farci complici di esso. Perciò l'incondizionato e l'assoluto non sono affatto fuori gioco. Il pensiero ne ha bisogno come di un fondamento necessario. Relativizzare il male significa banalizzarlo. E chi banalizza il male non solo chiude gli occhi di fronte a esso, ma lo accetta e finisce col farlo. Il tedesco Ratzinger sa ciò di cui parla. La banalità del male è Eichmann, il funzionario dello sterminio. E' il male fatto perché tutti lo fanno, perché qui si fa così, perché così vuole la legge.
Resta da vedere se la denuncia energica e controcorrente del relativismo porterà il nuovo Papa su posizioni meramente difensive, nella convinzione che la Chiesa sia una cittadella assediata dalla modernità. O se invece, indicando quel fondo di tenebra che la modernità vorrebbe cancellare o ignorare, riesca a stabilire un confronto reale benché problematico con quanti oggi ritengono che la Chiesa non abbia più nulla da dirgli. Certo è che a coloro i quali un po' troppo affrettatamente già vedono in Benedetto XVI un defensor fidei di stampo antimoderno, sarà opportuno ricordare ciò che lo stesso Ratzinger ha detto nella sua ormai famosa omelia: «La carità senza verità sarebbe cieca, ma la verità senza carità sarebbe come un cembalo che tintinna». Se fosse questo il programma?
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