Relativismo e solitudine
di Aldo Masullo
C'è sempre nella vita dell'uomo qualche momento in cui un'irreparabile perdita morale lo carica di una disperazione così profonda e così «interna» da richiedere il conforto di un ascolto autentico capace, magari con l'amoroso silenzio, di lasciarne defluire la terribile piena riducendone la distruttività. E spesso allora l'uomo si chiede smarrito, senza risposta: «A chi lo dico?». Questo - l'insuperabile solitudine - nell'esistenza umana è il punto limite della sofferenza. Esso segna la condizione non soltanto dell'individuo ma della specie umana. Allora lo scienziato, che pensa nei termini di una ragione rigorosamente contenuta nei limiti dell'esperienza, alla fine non può non lasciare che le sue conclusioni vibrino di una trattenuta angoscia.
Jacques Monod scrisse in un celebre libro sulla biologia contemporanea: «L'uomo finalmente sa di essere solo nell'immensità indifferente dell'universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo». Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, fin dai suoi esordi teologici colse nella situazione esistenziale dell'epoca della «scienza» la drammatica provocazione della sua ricerca religiosa. Nella Introduzione al Cristianesimo, del 1968, citava la scena di apertura di un dramma di Paul Claudel, in cui un missionario gesuita, naufrago alla deriva nelle acque ribollenti dell'oceano, grida al Dio della sua fede: «Sono davvero confitto in croce, ma la croce da cui pendo, non è più attaccata a nulla. Essa va alla deriva sul mare». E in Fede e futuro del 1970, ancora ripeteva: «Anche tra i credenti si diffonde sempre più un sentimento, quale può gravare tra i compagni di viaggio di una nave che affonda. Essi si domandano, se la fede cristiana abbia ancora un futuro, o se, invece, non si renda sempre più palese come essa sia semplicemente superata dal progesso intellettuale». Ratzinger è il teologo del naufragio e della solitudine. Con la morte di Dio, che caratterizza l'età della scienza come dominio della ragione nei limiti dell'esperienza, l'uomo resta orfano e solo, non ha più nessuno «a cui dirlo» il suo male, crudelmente insanabile poiché alla fine non v'è che il nulla. La solitudine è murata nel nichilismo. Sembra allora che l'ancor giovane Ratzinger trovasse la spinta propulsiva della sua ricerca teologica nella «pietà», tanto nel significato, originario, di devozione a Dio, quanto nell'altro, derivato, di compassione per l'uomo. Religioso è il pensiero dunque che, per compassione dell'uomo, per salvarlo dalla disperazione della solitudine, gli offre attraverso la fede in Dio il punto archimedeo su cui sollevarsi per non essere travolto. Il giovane teologo, ancora nella Introduzione al Cristianesimo, dichiarava che lo scopo della sua opera è di «aiutare a far comprendere in maniera nuova la fede, presentandola come agevolazione all'autentico vivere umano nel mondo odierno, spiegandola e interpretandola, senza d'altra parte degradarne la consistenza ad un vacuo chiacchierio che stenta faticosamente a mascherare un totale vuoto spirituale». Credo che qui, insieme con la motivazione esistenziale della pietà per l'altrimenti irreparabile solitudine dell'uomo, si trovi strettamente connesso il programma in nuce di un intero pontificato. Alla luce di queste considerazioni, io stesso credo di comprendere il frontale attacco dell'omelia dell'altro ieri contro i «venti di dottrina», le «correnti ideologiche», le «mode del pensiero», mentre in un medesimo cestino da svuotare viene ammucchiata anche una seria e severa filosofia qual è, nonostante tutto, il «relativismo». Certo, se il «relativismo» fosse «il lasciarsi portare "qua e là da qualsiasi vento di dottrina"», cioè se fosse non propriamente un pensiero, ma al contrario una debolezza mentale, la macanza di coerenza intellettuale e di fermezza morale, allora sì sarebbe lo stolido nemico non solo della fede ma pure della ragione. Che sarebbe una ragione senza coerenza, un «logos» che non fosse capace, come invece comporta l'etimologia stessa della parola, di raccogliere la varietà vissuta dell'esperienza nell'ordine di un concetto unitario, sempre pronto peraltro ad aprirsi a investigazioni e discorsi critici, e perciò non solo resistente ma pure fecondo? Ma il «relativismo» seriamente filosofico è il presupposto implicito nella possibilità stessa che il teologo ha di parlare con me, e con qualsiasi altro uomo. Se fossimo pietre o alberi, non ci sarebbe «relazione» tra noi, non saremmo l'uno «relativo» all'altro. Se ognuno di noi fosse «assoluto», cioè chiuso nel suo isolamento, barricato nella sua presunzione tutto sommato narcisistica, non potrebbe esservi scienza, che è collaborante confronto e controllo dialogico, ma non potrebbe esservi neppure religione, che prima d'ogni altra cosa è comunicazione della rivelazione divina e propagazione persuasiva. Se d'altra parte non vi fossero altrettanti punti di vista quanti siamo noi, e la loro relativa assolutezza (onde nessun punto di vista può essere confuso o barattato con un altro, e qui è il fondamento dell'assoluta dignità della persona!), se dunque non vi fosse l'assoluta relatività della relazione tra le assolute (e perciò inviolabili) coscienze individuali, allora non vi sarebbe né comunicazione né comunione tra gli uomini, non vi sarebbe la parola ma, questa volta sì, non la solitudine, che è ancora un parlare con se stessi, ma l'insensato isolamento dell'afasia. Se in ciò è l'essenza del relativismo filosofico, sono sicuro che un uomo della levatura intellettuale di Joseph Ratzinger non questo intende ma la inconsistente banalità e frivolezza del vivere senza ideali. Resta che la personalità del nuovo Pontefice è certamente animata da una emozione morale, umanissima: la pietà per la solitudine dell'uomo, ad alleviare la quale a uno spirito religioso non basta, come al razionalista, il pensiero confortante della solidale comunità degli uomini, ma occorre ciò che solo la fede può dare, il sentimento di non essere orfani.
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