Ritrovare con lui le radici cristiane
di GAETANO QUAGLIARIELLO
IN FRANCIA il trattato europeo è in difficoltà. Secondo gli ultimi sondaggi, il 56,5% degli elettori voterebbero oggi no. Il risultato può essere ancora capovolto ma la forte perplessità nei confronti di quest'Europa non potrà essere più annullata. Ora, la responsabilità di quanto sta accadendo viene attribuita allo sciovinismo dei francesi; al loro insuperabile nazionalismo; all'ostilità verso ogni avanzamento di una logica sovranazionale. E poi, in un'ottica più contingente, alla realtà di un trattato lungo, pletorico e confuso che sembra essere stato scritto per suscitare perplessità più che per conferire certezze.
C'è tutto questo nei dubbi dei francesi, ma c'è anche molto di più. La Francia contemporanea quella forgiata dal Generale de Gaulle è stata costruita su una caduca aspirazione alla grandeur e su una, più profonda, ad integrare tradizione cristiana e tradizione illuminista. La traduzione politica di questo tentativo è stata la definitiva apertura della Repubblica ai cattolici. La traduzione culturale, invece, è stata quella d'innestare, sulle radici della Francia dei santi e delle grandi cattedrali, quella della Rivoluzione dell'89 e dei diritti universali dell'uomo. Si trattava di “secolarizzare” l'illuminismo, cioè di sottrarre ai diritti di libertà la pretesa d'assoluto e di riconoscere quanto di morale vi è nell'uomo che non dipenda strettamente da un calcolo razionale.
Si sa che De Gaulle avrebbe voluto una Francia egemone in Europa; ma non una Francia qualunque. Era in nome di una sintesi tra identità cristiana e ragione che egli aveva candidato il suo paese ad essere il capofila del Vecchio Continente. Il fatto è che la Francia di Chirac non è più la Francia di De Gaulle. Le scelte di politica estera possono apparire vagamente somiglianti. Ma, al fondo, il laicismo di Stato imposto per via legislativa e attraverso la scelta di negare le radici cristiane nel Trattato ha rotto quella sintesi culturale che il Generale aveva così pazientemente tessuto. Questa rottura ha investito a pieno la concezione europeista dell'attuale classe politica francese, oggi in discussione davanti all'elettorato. Essa ha aderito ad una concezione dell'Europa fondata puramente sui diritti positivi nella quale, per questo, non ha potuto esserci posto per la tradizione né tanto meno per il riconoscimento di radici comuni. In tal modo, si è inconsapevolmente creata una cesura tra l'identità della nuova Europa e la stessa identità nazionale, almeno così come essa era stata definita dal gollismo.
Questa difficoltà potrebbe proiettarsi ben al di fuori dei confini dell'esagono. Perché se il Trattato fosse rigettato si aprirebbe un problema di ridefinizione e, finalmente, si porrebbe in maniera netta il problema che sottende l'intera costruzione europea: su quale identità stiamo costruendo la nuova casa comune? E si porrebbe finalmente, al cospetto della coscienza dei popoli, questo quesito: vogliamo un'Europa esclusivamente dei diritti, che ponga le nazioni su un piano di astratta equivalenza, superando le loro peculiarità storiche e istituzionali, ovvero un'Europa che sappia riconoscere le proprie tradizioni tra cui, certamente, anche quella illuminista e che proprio per questo sappia tener conto anche delle identità particolari delle nazioni che la compongono?
Siamo certi che, quando il problema si riaprirà, la Chiesa di Benedetto XVI non si terrà in disparte. Il nuovo Papa sa quali sono i rischi che non soltanto la religione cattolica ma ogni fede sta correndo per l'affermarsi di un illuminismo radicale. Non si tratta di rigettare le conquiste di libertà che sono divenute patrimonio comune. Ma di affermare che la ragione ha dei limiti e che in essa non si risolve completamente la moralità dell'uomo: principio questo al quale un laico dovrebbe tenere quanto un cattolico.
Per ottenere questa affermazione, il nuovo Papa è disposto a rinunziare alla garanzia dei diritti istituzionali delle Chiese contenuta nell'articolo 52 del Trattato: lo ha detto a chiare lettere ai primi di aprile a Subiaco. Non è in uno spazio di separatezza che può vivere oggi in Europa la Chiesa. Non è accettando una logica concordataria che può contrastare l'affermarsi di un pensiero unico razionalista. Essa deve accettare di essere minoranza, di perdere i propri privilegi; di diffondersi nella società e, partendo di lì, di far riscoprire all'Occidente i valori della cristianità che l'Occidente rischia di dimenticare. E' per questo, ne siamo certi, che Ratzinger ha voluto chiamarsi Benedetto. Egli non sarà un Papa pacifista, ma un Papa che vuole e saprà lottare. E che come San Benedetto da Norcia, in un tempo di disperazione e decadenza, cercherà di ripartire per realizzare un'immensa opera di evangelizzazione, per consentire ai popoli del continente di tornare a riconoscere da dove provengono.
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