benedettosedicesimo

4.21.2005

Chi lo conosce dice: non è un inquisitore

di FRANCESCO PAOLO CASAVOLA
DEL cardinale Joseph Ratzinger ho avuto occasione di leggere due libri, nel 1992 Svolta per l'Europa , nel 2004 Fede Verità Tolleranza , il Cristianesimo e le religioni . Le rispettive case editrici li presentarono per concorrere al Premio Capri-San Michele. Presiedendo quella giuria non ebbi dubbi nello sceglierli tra tutti, contro la regola che non privilegia due volte lo stesso autore anche a tanta distanza di tempo, un dodicennio tra l'una e l'altra. E nell'isola con l'ospitalità più della natura che delle case degli uomini, lo scrittore si rivelava nella conversazione privata molto diverso dalla immagine pubblica di cardinale prefetto della congregazione della Fede. Un uomo mite e affabile più attento ad ascoltare l'interlocutore che non ad esprimere una posizione di contrasto. Sapevo della sua lunga e brillante carriera di professore universitario in Germania, a Frisinga, Bonn, Münster, Tübingen, Ratisbona. Ho avuto maestri tedeschi, nella mia diversa disciplina di storia del diritto romano, che per qualche tratto accompagna la nascita e la crescita del cristianesimo cattolico. E mi sembrava per alcuni temi di parlare con uno di loro, tanta è la somiglianza nel gesto e nella psicologia tra gli uomini di studio, specie d'Oltralpe.
Però il cardinale Ratzinger convertiva il carattere dimesso del professore con l'umiltà del prete. Avevo l'impressione che riuscisse con naturalezza ad essere contemporaneamente un uomo dotto ed un servo del Signore. Le parole che il Papa ha pronunciato dalla loggia di San Pietro per indicare se stesso come umile lavoratore della vigna del Signore mi hanno ricollocato nell'atmosfera della conversazione anacaprese di tanti anni fa. Da allora non mi è stato più possibile pensare a Joseph Ratzinger come un severo inquisitore, quale si richiedeva di essere ai suoi predecessori a capo dell'ex Santo Uffizio. Ho sempre pensato ch'egli fosse sollecito a comprendere le difficoltà di vivere la fede in un tempo complicato e confuso quale ci è dato di vivere nel passaggio tra secondo e terzo millennio cristiano e con quanto amore di fratello e di padre adempisse la sua missione di chiarimento della dottrina e di indicazione della giusta via. Il suo libro su Fede Verità Tolleranza è una grande luminosa finestra aperta sullo scenario della globalizzazione e delle società multiculturali e del dialogo tra le grandi religioni mondiali. L'idea che la misura della vera fede stia nella capacità di porsi, ciascuno di noi, strumento dell'amore di Dio per gli uomini, non appartiene agli abbecedari dei pedagoghi intransigenti. Il custode della vera fede vuole la salvezza degli uomini nella gioia dell'amicizia con Cristo, non la condanna dell'errore come esclusione degli erranti.
Ho rivisto il cardinale Ratzinger l'8 settembre dello scorso anno, nel Duomo di Napoli, quando presiedeva la consacrazione episcopale del teologo Bruno Forte, oggi arcivescovo di Chieti-Vasto. La sua omelia era costruita con la chiarezza di una lezione universitaria. In grado di far risuonare molte corde intellettuali ma anche suscitare una profonda commozione del cuore nella folla che lo ascoltava così eterogenea e perciò proprio così organica quale deve essere una comunità di credenti. Un pastore che le pecore riconoscono alla voce e da quella voce si sentono rassicurate e disposte ad essere docilmente condotte lungo le strade della vita. E tuttavia chi avrebbe potuto immaginarlo Papa? Ch'egli fosse profondamente legato a Giovanni Paolo II era noto, e l'omelia pronunciata nella prima messa del novemdiale vibrava della commozione per la perdita del padre e dell'amico. Ma deve essere stata la seconda omelia, quella della messa de eligendo pontifice , a persuadere il collegio cardinalizio a far convergere la scelta su di lui, come unico tra loro a poter raccogliere l'eredità di una Chiesa sollevata dalla straordinaria energia del Papa polacco al di sopra delle agitate vicende del mondo contemporaneo. Egli soltanto, così diverso nello stile e nel carattere da Karol Wojtyla, e pure così determinato e forte nel proseguire una strada aperta dalla convergenza di fede e ragione, è apparso come indicato dallo Spirito di Dio ai suoi elettori. Aveva dettato le meditazioni alla via Crucis del Colosseo in assenza del Papa immobile e muto nella sua stanza di morituro. Le sue parole non potevano non esprimere il pensiero del suo Papa, e quella medesimezza casuale di ruoli deve essere stata come una investitura di fatto, presagio di quella che sarebbe venuta poi dal Conclave.
I segni di Dio sono attorno a noi e non siamo allenati a scoprirli. Se vorremo seguire l'insegnamento del nuovo Papa dovremo educarci a vedere nella nostra esistenza, in quelle del nostro prossimo, nella storia del mondo i segni del Signore in cui crediamo. Altrimenti come potremmo dire sia fatta la tua volontà, non la mia? Perché il nuovo Papa si è dato il nome di Benedetto XVI, sarà domanda cui ci si eserciterà in questi giorni a dare molteplici risposte. Ma la pietà religiosa di Benedetto XV, l'aristocratico marchese Giacomo Della Chiesa, che passava lunghe notti nell'adorazione del S.S. Sacramento dopo il lavoro nella Segreteria di Stato, deve avere evocato un profilo di affinità elettiva con il nuovo Papa.
E poi la inesausta deplorazione di Benedetto XV della “inutile strage”, quando scoppiò il primo conflitto mondiale, la sua denuncia del nazionalismo, dell'odio di classe e di razza devono avere convinto, e chissà da quando, il tedesco cardinale Ratzinger a fare di quel Papa un suo ispiratore. E forse ricorderei per Benedetto XVI, con cui non oserei più avventurare una conversazione tra colleghi professori, un passaggio dell'enciclica Ad Beatissimi del suo omonimo predecessore: «Noi dovremo rivolgere una attenzione specialissima a sopire i dissensi e le discordie tra i cattolici quali esse siano, e ad impedire a non fare più uso di quegli appellativi di cui si è cominciato a fare uso recentemente per distinguere cattolici da cattolici».